La gonna è rigorosamente di paglia. Modello unico, imposto dalle tradizioni, oltre che dal caldo. Per il resto, la moda dell’isola uniforma lo stile femminile alle tendenze di luoghi meno esotici ma comunque attenti al fascino dell’etnico-chic. Seni nudi e volti allegri, alla latitudine di Yap, gelosa custode di un mondo che altrove è in via d’estinzione. Qui si rispettano le antiche culture, ma non ci si affanna a respingere il nuovo. E il risultato è un convivere sereno ma stupefacente di abitudini millenarie e tempi moderni. Il topless non è riservato a chi ha la freschezza degli anni, e non c’è luogo nel quale sia poco gradito. Supermercati compresi. Ed è qui che appare l’altra meraviglia di questo paradiso incantato della Micronesia. Il fruscio delle gonne di paglia accompagna lo shopping che ha per teatro uno scenario di ripiani rubato a un qualunque negozio europeo o americano: le signore in lava lava, così si chiama il gonnellino, acquistano patatine fritte in confezioni di plastica, sapone per lavastoviglie privo di agenti inquinanti e non rinunciano alla Coca Cola, magari senza eccedere in pretese ipocaloriche e trascurando la versione diet.
Non meno curiosi appaiono gli uomini. Rudi ma sorridenti, mezzi nudi anche loro ma capaci di parlare un ottimo inglese e perfino di stare attenti a quei dettagli che fanno di uomo un gentleman. Perché scelgono con cura il loro perizoma – anche al maschile l’abbigliamento è ridotto all’essenziale – e non rinunciano all’eleganza di un bell’orologio, spesso un Rolex. Che poi sia originale o arrivi, come si dice, <taroccato>, cioè rigorosamente falso e acquistato sulle bancarelle dei mercati orientali, questo è accertamento che si rimanda ai conoscitori più esperti.
Meraviglie di un mondo lontano. Yap e dintorni sono quattro isole affacciate nel Pacifico, in quella via lattea terrena che è la Micronesia, schegge verdi lanciate in mezzo al mare, oltre le Filippine, lì dove il fondale sale dagli abissi e si prepara per gettarsi in un’altra fossa, quelle delle Marianne, prima di riprendere la corsa verso le Americhe in un labirinto di barriere coralline, atolli, residui vulcanici. Un paradiso per chi ama esplorare i fondali: perché questi sembrano custodire davvero antichi segreti, fra isole grandi come scogli e foreste di mangrovie che sono il teatro di una rappresentazione unica nel pianeta.
E’ qui che le grandi mante si danno convegno e dopo aver imparato a resistere alla tentazione di fuggire, ora sopportano per ore, con coraggiosa simpatia, il pacifico assalto dei subacquei. Una fila di ventri bianchi, di ali che elegantemente si muovono nell’acqua. Sei, sette otto creature di diversi quintali di peso e dalla leggiadria di una farfalla scivolano intorno ai sub che obbediscono rigorosamente alle guide: <Rimanete immobili> è il comandamento da rispettare. <Non spaventate le grandi mante, o romperete l’incantesimo e fuggiranno via in pochi secondi>. Chi si immerge cerca istintivamente di trattenere perfino il respiro, per eliminare il fragore delle bolle, quelle innaturali strisciate d’argento che risalgono verso la superficie. E le mante sembrano capire questo sforzo, si avvicinano sempre di più, passano sulle teste dei sub, li carezzano con il ventre o con quelle ali possenti. Volano in acqua, immense e armoniose. Finchè anche l’uomo capisce il segreto del miracolo di Yap. Su due o tre scogli corallini isolati su questa landa di sabbia, vivono piccoli pesci. Sono gialli, rotondi, grandi come il palmo di una mano. O blu, allunganti, delle dimensioni di una biro. Quando la manta passa sopra al loro rifugio quelli saltano a bordo. Si avvicinano alla bocca, entrano ed escono dalle branchie, si perdono al centro del candido, immenso ventre della manta fino a giungere alla coda sottile e allungata, sotto alla pinna dorsale identica a quella degli squali suoi parenti. I pescetti piluccano senza sosta ovunque, liberano la grande manta dai piccoli, fastidiosi parassiti, facendone una scorpacciata. Ed il gigante del mare nuota lento, armonioso, estasiato. Proprio come farebbe un uomo se stesse godendo di un piacevolissimo massaggio. Quando la loro opera è conclusa, la manta compie un’ulteriore evoluzione e si riavvicina allo scoglio. I pesciolini sbarcano veloci, in attesa di un altro cliente. O in attesa di quella che per loro deve sembrare una gigantesca tavola imbandita.
Yap è un mondo a parte. Un universo stregato da quel che resta dell’essere semplici e naturali, anche se la tecnologia rischia di far cambiare in fretta molte cose. Colonia è la capitale: strade pulite e asfaltate, case piccole, ordinate, rigorosamente dotate di antenne e televisione. Davanti alle porte, sostano spesso con l’indulgenza di chi non ha impegni travolgenti, donne giovani o meno giovani, tutte a seno nudo, tutte impegnate in un ruminare infinito. Non è la gomma americana, ma la noce del betel, un leggero stupefacente naturale, che stordisce un po’ e colora di rosso le labbra. E infatti, a intervalli regolari, le lady dell’isola lasciano traccia del loro vizietto indirizzando in terra colorati grumi di saliva.
Vivono in libertà, e se lo sguardo all’orologio diventa vigile, lo è soltanto per non perdere qualche appuntamento televisivo che ora comincia a scandire le giornate. Il prezzo dell’evoluzione. Come era già accaduto nelle non lontanissime Fiji, dove l’esplodere televisivo di soap opera di origine americane ha di fatto modificato perfino consolidate abitudini alimentari. Le teen ager figiane, abituate a modelli materni di donne giunoniche, hanno improvvisamente deciso di prendere come riferimento le splendide ragazze americane, senza grassi aggiunti. E hanno scoperto l’anoressia.
Qui sono salvi, almeno per il momento. Non rischiano di stravolgere la loro alimentazione, fatta essenzialmente di verdure e pesce di barriera. Sarà questo vivere senza affanni, questo affrontare con serenità la natura che però sa anche diventare severa. Venti forti, tempeste, e anche quando il mare resta calmo, miglia e miglia di navigazione per raggiungere un’isola vicina. Hanno il telefono, ma seguono la generosità dei venti con le loro piroghe per nulla diverse da quelle degli antenati. Come identiche a quelle di secoli fa sono le <stone money>, le monete di pietra. Non bisogna pensare a semplici sassi rotondi con dei buchi al centro, o a grottesche ruote in stile Antenati. A Yap ci sono dischi di pietre calcaree con un diametro di circa un metro, pesanti qualche centinaio di chili. Ed è, naturalmente, proprio nel peso e nelle dimensioni che sta il valore dei soldi di pietra. Tutto nasce dal fatto che a Yap non ci sono rocce calcaree e dunque gli yappesi dovevano partire in piroga e compiere lunghi e a volte anche pericolosi viaggi in mezzo all’oceano, fino alle isole dell’arcipelago di Palau, per poter intagliare un disco nella roccia e portarlo poi indietro. Quanto più la pietra veniva da lontano, quanto più il viaggio era stato difficile e avventuroso, maggiore era il valore della <stone money>.
Ancora oggi i clan e le famiglie fanno mostra della loro ricchezza accumulando le monete di fronte ai villaggi, in quelle che sul luogo sono note come “stone money bank”. E non si deve credere che oggi il valore del verde dollaro abbia completamente cancellato il valore dei soldi di pietra. All’alba del terzo millennio, può capitare che se qualcuno fa torto ad un altro, gli venga richiesto di offrire all’offeso una moneta di pietra, che poi verrà esposta nella stone money bank della sua comunità. Ad ostentare il successo nel contenzioso. E dove esiste una banca, si sa, esistono furti. Anche qui un vecchio capo villaggio ha il dente avvelenato con quelli di un insediamento di un’isola vicina, i cui antenati, così sostiene, avrebbero rubato alcune monete di pietra ai suoi familiari. Lui non se ne riesce proprio a fare una ragione e minaccia azioni legali. Gli abitanti dell’isola vicina, i presunti ladri, sostengono che i loro avi partirono in piroga da Yap alla volta di Palau. E che una notte sbarcarono su un’isola, ritenendola la loro meta. Qui, con loro grande stupore, trovarono delle monete di pietra in terra vicino al mare. Presero la cosa come un segno del destino e le portarono via. Si discute ancora, il finale resta molto incerto.
Oggi si attraversa il mare come allora, con piroghe in legno sulle quali non è cambiato quasi niente. Filano veloci sull’acqua, con il bilanciere che lascia una scia frizzante e sottile. Sono ancora ricavate da tronchi scavati, cui sono legati gli altri elementi, in legno e bambù. Una brezza leggera basta a gonfiare la vela triangolare. Non c’è prua nè poppa su questo tipo di barca. Per virare si sposta l’intero albero da una estremità all’altra e si riprende la corsa nella nuova direzione. Una pagaia incastrata tra i piedi del pilota e lo scafo funge da timone. E ne fa davvero l’imbarcazione ideale per navigare tra i coralli e i bassi fondali della laguna.
Come le barche, resistono al correre dei tempi anche i riti che si celebrano nella Men’s House, la casa riservata agli uomini. Cultura per certi aspetti maschilista, quella di queste isole, che riserva al sesso forte ambienti e cerimonie assolutamente vietate alle lady. Ma ci sono feste, come lo <Yap day>, una sorta di festa nazionale, che riuniscono tutta la popolazione. E allora ecco i bambini che giocano sotto gli alberi, le donne anziane che intrecciano foglie e collane di fiori, quelle più giovani che si preparano alle danze. Si spalmano a vicenda il corpo di oli colorati, si truccano con rossetti brillanti e polveri di terra.
Senza mai smettere di masticare betel. Ballano, interpretando coreografie vecchie come queste isole, che i bambini imparano a scuola. E’ il loro mondo, la loro cultura, la loro tradizione. Danze di donne, adolescenti e mature, danze di bimbi, di giovani che evocano antiche battaglie. Danze che seguono passi complessi e spettacolari, accompagnate da canti e musiche. Alcune si ballano con tutto il corpo, con ritmi scatenati, altre sono semplici ondeggiamenti che si fanno da seduti, in altre ancora i ballerini sono allineati in una fila. Poi è il turno degli uomini, forse i discendenti dei guerrieri, che si affrontano in maniera rituale menando rumorosi colpi di bastone. Dopo ogni coreografia gli spettatori si alzano e compiono un giro attorno ai ballerini, deponendo un dono ai piedi del loro preferito. Portano fiori, dolci di zucchero e cocco, lava lava colorati. Si va avanti fino a sera, fino a che l’ultima danza non si perde nei colori del tramonto. Quando l’ultimo bagliore di rosso scompare dal cielo tropicale.