Quel che resta dell’orrore è nei sotterranei di un palazzo neoclassico di Gedimino Prospektiva, la strada più importante di Vilnius. Le celle del KGB, allineate in una galleria della ferocia umana, rivelano le atrocità che avevano a lungo nascosto: tracce di sangue, foto, abiti, scarpe di chi non è più uscito vivo da questo che oggi è chiamato Museo del Genocidio. I nomi dello sterminio sono scritti sulla facciata, accompagnano verso l’ingresso, come le stazioni di una via crucis: molti non avevano più di 20 anni quando vennero falciati via dalla vita. Come i morti del 1991, quando la Lituania decise di liberarsi dal giogo sovietico e il popolo combatté contro i Berretti Neri, i reparti speciali della Russia di Gorbaciov.
Le candele sono sempre accese davanti al Museo, c’è ancora chi si asciuga gli occhi mentre passa lì davanti. E c’è pure chi non ce la fa ad entrare: “Immagino – dicono – non voglio vedere”. A impressionare, per la crudeltà del luogo ma anche per la ferocia dell’idea, sono alcune celle di isolamento, insonorizzate perché servivano anche da camere di tortura, ma rese invivibili perché sempre allagate: il pavimento era coperto da mezzo metro d’acqua, i piedi restavano sempre a mollo, sedersi era impossibile senza infradiciarsi completamente. D’inverno, con il gelo di Vilnius, per prigionieri colpevoli di niente, denutriti e malati, cominciava in quel seminterrato il percorso che in breve li avrebbe portati alla morte.
La Vilnius di oggi non dimentica, ma si è scossa, è animata, sorride, insegue un benessere che troppo a lungo è mancato. Via Vilniaus, forse la strada più vivace, è un sentiero che la folla invade ogni sera, soprattutto dalla parte di Gedimino Prospektiva, la strada dei ministeri. Un locale accanto all’altro, luci, risa, giovani che flirtano, birra, vodka, ragazze vestite di niente – minishort aderenti e canottiera con scollatura profondissima, tutto rosso – che fanno da fiammeggianti buttadentro, ossia attirano clienti, anche in un semplice e non peccaminoso pub: Hooters, si chiama, per essere precisi. Venerdì e sabato c’è il pienone. Come a via Pilies, intorno alla piazza del Municipio, e ovunque nel centro antico di questa capitale barocca. Scintillano champagnerie, si brinda in strada, quando il clima lo consente, il pesce veloce del Baltico, ossia il baccalà, è sempre un gradito spuntino.
Vilnius non esibisce il benessere, cerca di goderselo, anche perché lo ha raggiunto con qualche affanno. La vita costa più o meno come in altre città europee, forti però di una maggiore solidità economica, ma gli stipendi non sono gli stessi. Sarà anche per questo che è fiorita e si è sviluppata una comunità di stravaganti artisti, sullo stile della più famosa Christiania di Copenaghen, riuniti ad Uzupis, un quartiere non lontano dal centro, una “città libera”, come la chiamano loro, con cartelli stradali che ne delimitano i confini. Il governo, quello vero, lascia fare: anche perché Uzupis è diventata in breve un’attrazione turistica. Dove tutto è più caro. Come sempre, più fanno gli alternativi, più alzano i prezzi: un caffè 1 euro e 20, un cappuccino 1.70. Hanno perfino una costituzione, stilata in 41 punti ed incisa in 29 lingue su pannelli a specchio esposti lungo Paupio Gatve, una stradina tranquilla. Uzupis ha pure un inno, una bandiera (che cambia colore a seconda delle stagioni), una moneta, un esercito di una dozzina di uomini, un presidente e perfino un Parlamento con sede presso Uzupio Kavine, un bar. Non mancano i cittadini onorari, tra cui il Dalai Lama. Insomma, si sono presi sul serio. A vagare per le stradine c’è la stessa atmosfera tranquilla di tutti i posti come questo, che cercano di ritagliarsi uno spazio fuori dal mondo. Era il quartiere più malfamato della città, ora è pieno di locali, ristoranti e sempre molto frequentato. Ci abitano ancora, ma sono rimaste poche, famiglie di anziani sopravvissuti a tutto, invasione nazista, stalinismo. E nei cortili nascosti, che sbocciano oltre un portone diroccato, assaporano gli istanti della loro vita senza tempo: una sedia, l’ombra d’estate, un riparo se piove, lasciano che i loro giorni scivolino ancora via così, senza desideri e con il nulla intorno, proprio come il comunismo li aveva abituati a crescere. Ma almeno ora non hanno più la paura e la tristezza nel cuore. Sorridono, ogni tanto, guardando queste comitive di squinternati che gli si agitano intorno, i capelli viola o verdi, gli orecchini al naso, la pelle arabescata di tatuaggi, gli uomini che sembrano donne e viceversa. Un mondo che non capiscono. Ma non se ne curano.
Da qui traversano il ponte, Uzupis vuol proprio dire “oltre il fiume”, e vanno a pregare a Sant’Anna, la chiesa che in una città barocca brilla di luce gotica, con archi e finestre slanciate. Piacque moltissimo a Napoleone, che avrebbe voluto portarla a Parigi. E’ bella vista da fuori, dentro delude, come tutte le chiese di Vilnius, Cattedrale compresa: negli anni dell’occupazione sovietica e della fede vietata vennero spogliate di ogni opera d’arte, ridotte a magazzini e officine. Non ha mai subito oltraggi, invece, la Madonna della Porta dell’Aurora, un dipinto custodito all’interno di una delle porte d’accesso alla città vecchia. Venne realizzato verso la metà del 1600 e raffigura la Madonna senza Gesù. E’ meta di pellegrinaggi, perché ritenuta miracolosa. La Madonna è visibile dalla strada, collocata proprio al centro di una balconata, ma bisogna salire una ripida scala per arrivare al suo cospetto. Intorno, un tappetto infinito di ex voto, cuori d’argenti, frasi di ringraziamento per piccoli o grandi miracoli ricevuti. E non c’è ambiente che non profumi, i fiori sono freschi ogni giorno. E’ il rispetto del sacro, in una città affollata di chiese ma anche di giovani, attratti da un’Università antica e prestigiosa, fondata nel 1579 e retta per due secoli dai Gesuiti. Cinquemila studenti vengono qui in cerca di saperi, anche se molti, come capita negli altri paesi baltici, scelgono di percorrere altrove le strade del loro futuro. A bruciare la voglia di restare è la mancanza di fiducia nel domani della Lituania: “Vorrei rimanere, ma quali prospettive ho?” si chiede Dainora, tre sere alla settimana cameriera per “mettere da parte” qualche soldo che servirà quando andrà via. “Londra o Francoforte, ancora non ho deciso. Mi piace la pubblicità, è un lavoro creativo”.
Il desiderio dei Millennial è uscire dal prevedibile, dalla routine scandita secondo ritmi e costrizioni che potevano essere sopportati dai loro genitori, prigionieri di un mondo che non c’è più, ma che per loro sono inaccettabili. L’arte esercita sempre una grande attrazione, la Triennale Baltica è diventata un appuntamento molto seguito, il teatro ha una vigorosa tradizione. Libertà significa scambi, cultura, curiosità. Fioriscono le scuole internazionali, con rette che arrivano anche a 15 mila euro l’anno, aiutano a coltivare la speranza in un domani migliore. Poi c’è pure chi viene a cercare fortuna qui. Gli italiani, sempre noi, convinti che sorrisi, pizza e pasta al pomodoro bastino per costruire la felicità. Stuoli di giovanotti, Calabria, Napoli, Salerno, Fondi, diventano imperatori dei fornelli, fanno roteare le pizze prima di lasciarle inghiottire dai forni a legna con la stessa spettacolare maestria con cui i barman agitano lo shaker prima di servire i loro cocktail multicolori. “La vita è un’arte” sentenzia Pietro da Secondigliano, filosofo di strada, ignorante per sua ammissione, “terza elementare, non se n’è accorto nessuno. Rubavo, spacciavo, che dovevo fa’?”, felice del suo presente e affatto preoccupato del domani. “Oggi sto qui, poi magari vado in Oriente. Le donne sono la mia stella polare: queste sono bellissime, là c’hanno gli occhi a mandorla. Mi diverto, tante fidanzate, qualche soldo, che pozzo vole’ de cchiù?”. Prospettiva, da queste parti, è una parola che significa strada: indica una direzione, non necessariamente una strategia di vita. Avrà ragione Pietro?