C’è stato anche sangue italiano nella guerra del Vietnam. Né un onore, né una vergogna. E’ la Storia. La storia di una famiglia di emigranti e del suo figlio più giovane, iscritto all’anagrafe abruzzese di Poggiofiorito con il nome di Marco Polo. <Sarà perché c’era l’Oriente nel mio destino. Ma allora nessuno lo sapeva>. Quando Marco Polo nasce è il 1948: l’Italia fatica alla ricerca dello sviluppo, chi può e ha coraggio va a cercare fortuna altrove. Il padre di Marco Polo lascia la provincia di Chieti e sbarca in America: <E’ partito quando avevo quattro mesi, l’ho rivisto che avevo 5 anni>. Poi a Boston arriva tutta la famiglia, il ragazzino cresce e si dà da fare, finchè sceglie le vie del mare: <Mi imbarco: vedo Singapore, Hong Kong, Thailandia. Nelle Filippine mi innamoro e mi fermo: guadagnavo 1000 dollari al mese, una fortuna nel 1968. Finisco con un mercantile in Vietnam e incontro i soldati americani. E lì mi frego. Perché in America avevo fatto a botte tante volte con gente che mi prendeva in giro perché ero italiano. Ma io ormai mi sentivo americano, tutta la mia famiglia viveva negli Stati Uniti. Insomma, mi piaceva l’idea di fare qualcosa per il mio nuovo paese, qualcosa di cui tutti noi, io, mamma, papà, i miei fratelli, e poi anche i miei figli, potessero andare fieri. Mi sono arruolato volontario nel corpo dei Marines. In un attimo ho buttato a mare 1000 dollari al mese per una paga di 217 dollari ogni 30 giorni. Con il rischio di finire ammazzato. Una stronzata? Forse oggi non lo rifarei, ma allora avevo vent’anni…>.
La vita del soldato Marco Polo Smigliani comincia così, nel campo di addestramento dei Marines a Parris Island, South Carolina. <Arriviamo alle due di notte in pullman e troviamo gli istruttori ad aspettarci. Colossi che ci scaraventano giù dai pullman e ci urlano ”Avete 40 secondi per l’adunata”. Come nei film, pioveva pure, e noi eravamo storditi da un lungo viaggio e morti di sonno. Era solo l’inizio. Furono 4 mesi tremendi in cui cercarono in tutti i modi di insegnarci quello che un uomo per sua natura rifiuta: uccidere un altro uomo. Ci sono stati momenti in cui credevo di non uscire vivo da quella scuola: poi sono arrivato fino alla fine e quando mi sono trovato nella giungla del Vietnam ho capito quanto dovevo a quei terribili istruttori. A uno in particolare, che mi torturava perché ero italiano come lui: il sergente Riccardo Perito>.
La guerra del soldato Marco Polo comincia quasi come un film di Fantozzi. <Arrivo in Vietnam il 10 gennaio 1969 e mi sembra di sbarcare in un altro mondo. Appena metto un piede a terra sento un caldo insopportabile e intorno a me vedo solo casse da morto e sacchi di plastica nera con dentro cadaveri. Ero stato assegnato come mitragliatore al Primo Battaglione del Nono Marines, Compagnia Alfa. Mi danno un M16 e subito, mentre attraverso il campo, vedo un vietnamita e che faccio?, ovvio, gli sparo. Una bella raffica, ma non lo prendo. Mi saltano addosso in cinque e mi immobilizzano. “Che cazzo fai? E’ nostro, è una guida”. Porca vacca, penso. E mi trascinano a rapporto dal comandante. “Vuoi fare la guerra? – mi chiede – Hai tanta voglia? Ti sistemo subito”>.
La mattina dopo è su un elicottero, destinazione Ashau Valley, la macelleria di Hamburger Hill, una di quelle colline dove americani e vietnamiti si sono massacrati per settimane. <Atterro e trovo un villaggio di uomini della pietra: sporchi, barbe lunghe, divise stracciate. “E chi sono questi?” domando a un commilitone. “Siamo noi fra qualche giorno”. Quei Marines stavano lì da due mesi, sembravano cavernicoli. Passano le giornate fra scaramucce, combattimenti, finché una mattina andiamo con tutta la compagnia a rifornirci d’acqua. Siamo 160 uomini in marcia. All’improvviso ci arrivano proiettili da tutte le parti e il campo è libero solo in una direzione. Cerchiamo riparo da quella parte, ma appena ci sembra di esserci sistemati per difenderci proprio da lì cominciano a spararci addosso. Altri vietnamiti. Un’imboscata perfetta. Il mondo che conoscevo è finito in quel momento. Intorno a me ragazzi che saltano in aria, si spaccano come ananas, una gamba da una parte, il braccio dall’altra, teste che rotolano. Abbiamo cominciato a sparare alle 10 di mattina, fra le piante di banane, abbiamo finito che era sera, in mezzo a canne di bambù alte due metri che non ti facevano capire dove stavi. Cento morti fra i nostri, compresi i quattro tenenti, 190 vietnamiti uccisi. E quelli non erano vietcong, che erano forti ma senza una grossa formazione militare. Quelli erano l’esercito del Vietnam del Nord, gente con le palle, soldati durissimi che non arretravano mai. Un fior di nemico>.
Come ti immagini un marine, anche se di origine italiana? Marco Polo è così. Sfiora il metro e novanta, dimostra 10 anni di meno, cammina come John Wayne, lasciando che le braccia oscillino davanti al tronco. Ormai muove bene anche il braccio sinistro, sul quale restano, però, evidenti ricordi di guerra. <Ci sparavano addosso e noi cercavamo di difenderci proteggendoci dentro le buche che avevamo fatto la sera prima. Un razzo si infila nella buca vicino alla mia. E mi arriva addosso di tutto, la faccia di quello con cui fino a due secondi prima stavo parlando, poi un pezzo di osso, sangue, pelle. E mentre cerco di capire che succede un cecchino mi becca al braccio sinistro. Ero di tre quarti, mirava al cuore, cercando di colpirmi sotto l’ascella, dove la protezione del giubbotto antiproiettile non arrivava. La pallottola dell’Ak47 si ferma nell’osso: ce l’ho ancora conficcata, non l’ho tolta. Sento un dolore terribile ma mentre cerco di fermare l’emorragia con il laccio delle emergenze, un altro razzo, o forse una granata, mi esplode vicino, le schegge si conficcano nell’avambraccio sinistro. Pensavo d’averlo perso. Ma se sono ancora vivo lo devo a John Moore: ha beccato il cecchino che mi aveva sparato. Se non moriva lui, sarei morto io, m’avrebbe fatto fuori, ormai ero un bersaglio facile>.
Il braccio sinistro di Marco Polo è un orribile ricamo di segnacci. Ferite rimarginate senza alcuna attenzione estetica compongono un rosario di cicatrici che segnano il tormento del corpo. <Non sono queste che fanno male – dice Marco Polo – i dolori veri sono altri, quelli che porto nel cuore. Ci sono notti in cui ancora mi sveglio e mi sembra che il buio non finisca mai. E sono passate decine di anni. Ma non si dimentica quello che è successo laggiù. Stai insieme a una persona e pochi secondi dopo ti ritrovi la sua testa addosso, o vedi un braccio che gli si stacca. Parlare di guerra e di morte è una cosa, altro è viverla. Non so quante persone ho ammazzato, non lo so. Ma quando sei lì hai un solo pensiero: “Come posso uscire vivo?”. Il resto non conta>.
Ogni tanto torna in Italia, a riaccarezzare le sue radici. Ma ovunque vada e ovunque si trovi, sfodera sempre su qualunque abito, sia una maglietta o un completo blu, il distintivo dei Marines, quell’aquila con gli artigli aggrappati sulla terra che nasconde un’ancora. <Quando diventi un marine, sei un marine per tutta la vita. E’ un modo di vivere, uno stile, è la sensazione di far parte di una grande famiglia alla quale si è sempre fedeli. E’ il nostro motto, sempre fedeli. Quando ci incontriamo, ci salutiamo dicendoci “semper fidelis, brother”. Tra di noi ci chiamiamo fratelli, e lo siamo, in battaglia e in pace. La nostra mentalità è aiutare gli altri. Vedi, anche in guerra. Anche se i governi ci mandano alla guerra, noi vogliamo portare la pace. E per farlo siamo pronti a morire>.
Di morire ha rischiato almeno un’altra volta. E sempre per colpa del Vietnam, anche se da civile. La guerra non era ancora finita ma lui era stato rimandato a casa perché le ferite al braccio non gli consentivano più di stare al fronte. Aveva ripreso da poco a lavorare in marina quando gli offrono un imbarco sul <Columbia Eagle>, con un carico di 7 mila tonnellate di napalm da portare in Vietnam. <Doveva essere un viaggio tranquillo, invece dopo appena qualche giorno un marinaio mi si avvicina e mi chiama “ammazzabambini” perché aveva saputo che avevo combattuto in Vietnam. Ci meniamo come forsennati finché ci dividono. Finisce lì, non ci salutiamo più, non ci parliamo, ci ignoriamo senza altri scontri. Una decina di giorni dopo sento il segnale di allarme che nei codici della marina significa “abbandonare la nave”. Incontriamo il Comandante che conferma, noi ci prepariamo e saliamo sulle scialuppe cercando di allontanarci il più in fretta possibile. Io conoscevo il napalm e sapevo che se quelle 7 mila tonnellate fossero scoppiate vicino a noi ci avrebbero fatto diventare patatine fritte. Raggiunta una distanza di sicurezza, guardiamo verso l’orizzonte, aspettando che la nave esploda: ma non succede niente e questo ci incuriosisce. Qual era il problema? Non capiamo, ma pensiamo soprattutto a salvarci. Siamo in mare aperto, fra il Vietnam e la Cambogia, timorosi di sparare un razzo perché potrebbero avvistarlo anche i Khmer rossi o i vietcong. Alla fine decidiamo di tentare, segnaliamo la nostra presenza e la fortuna vuole che si avvicini per prima una nave americana, un altro mercantile che come il nostro trasportava napalm. E ci svela che cosa era accaduto. La “Columbia Eagle” erra stata sequestrata da due marinai che l’avevano portata in Cambogia per non far arrivare il napalm a destinazione. Uno dei due, naturalmente, era quello con cui avevo fatto a cazzotti>.
Oggi Marco Polo ha una vita serena. Ha sposato una quasi compaesana, Donna, dalla quale ha avuto tre figli. Vivono nel New Jersey dove lui si occupa dei Veterani. <Sono, anzi, siamo stati trattati malissimo al ritorno dal Vietnam. Se pensi che del mio battaglione compaiono 749 nomi sul monumento ai veterani che sta a Washington: 749 ragazzi che non hanno più visto la madre, il padre, la moglie, i figli, gli amici. Oggi qualcosa è cambiato, ma molti di quelli che hanno combattuto in Vietnam hanno problemi con la pensione, le malattie. Cerco di aiutarli, di assisterli legalmente, ma anche nelle piccole cose di tutti i giorni: quelli che abitano dalle mie parti e hanno difficoltà di movimento li accompagno a fare la spesa>. E’ sereno, dopo averne fatte di tutti i colori. E’ stato sceriffo a Palm Beach ma anche croupier ad Atlantic City, ha aperto un ristorante e avviato una piccola attività di bus per turisti. <Te l’ho detto, sono un inguaribile Marine: il mio bicchiere non è mai mezzo vuoto, lo vedo sempre mezzo pieno>.