Il gigante buono è un lupo solitario, che alla fine della primavera emigra dalla valle e si arrampica in montagna, fino alla sua malga, il suo rifugio dalla folla. Parla poco e quasi muggisce, come Carolina, la sua mucca preferita. Ha mani callose e potenti e d’inverno impugna l’accetta e si guadagna da vivere facendo il taglialegna: d’estate bada agli animali e governa il bivacco in alta quota, due stanze incastonate tra i boschi e affacciate sul lago di Anterselva, una pennellata azzurra tra le montagne. E’ anche maestro di fornelli, che funzionano a legna, come secoli fa, ma non è mai troppo felice di trasformarsi in cuoco delle vette per escursionisti in ferie.
“Jacob, c’è da mangiare?”.
Passano un paio di minuti prima che trovi la risposta, sempre la stessa, anno dopo anno: “Non zo”.
E se l’arrampicatore è simpatico, tira fuori il burro fatto da lui, e pare impossibile che quelle mani da spaccasassi siano capaci di creare una crema così gustosa e leggera da sembrare profumati fiocchi di neve che scompaiono, etto dopo etto, spalmati sopra il pane nero ricoperto dalla marmellata di mirtilli, quella preparata dalla mamma durante l’inverno.
“Jacob, che altro c’è?”.
“Forze due uova al tegamino”.
E sforna una bomboniera di sapori, un letto di sottili fette di speck sulle quali distende due uova preparate a puntino, non troppo cotte da restare ingessate, nè troppo crude e molli da ballare il can-can nel tegamino. E’ capace di cronometrare a occhio i secondi di cottura e quando spegne la fiamma sforna uova perfette, lasciate a quel tremolio lieve che annuncia l’esplosione arancione del tuorlo, appena punto da una forchetta o schiacciato da una fetta di pane. Una miscela semplice e meravigliosa di sapori, che si amalgamano e si scompongono, come un arcobaleno di gusti, tra uova, una noce di burro fatto in casa, speck tagliato sottile e pane appena sfornato.
Jacob il solitario è uno dei guardiani della valle. E’ il controllore del sentiero numero 7, quello che dal laghetto che chiude la valle di Anterselva porta fino alla Croda Rossa, ascesa facile, dotata perfino di una scorciatoia per pigri golosi, che affrontano la scalata di qualche centinaio di metri soltanto per affidarsi alle coccole rozze della gastronomia di Jacob. Ma il corpo sazio rende allegro anche l’animo ed è allora, o anche prima, che si scopre la meraviglia di questa porzione d’Italia che il mondo ci invidia e noi abbiamo trascurato e oggi, con una dannazione da contrappasso, rischiamo di rovinare soffocandola di presenze.
La Val Pusteria è un inferno di bellezza che comincia abbandonando l’autostrada del Brennero a Bressanone e infilandosi in un budello che si ingorga come una strada del centro di Roma o di Milano. Troppa folla, troppe auto, per questo santuario che se fosse sbocciato negli Stati Uniti avrebbe avuto un nome altisonante e conosciuto in tutto il mondo, accompagnato dal titolo di National Park, e magari sarebbe stato accessibile soltanto con un biglietto d’ingresso e per un numero limitato di visitatori. L’Italia resta generosa: in 12 mila ettari ha creato un Parco naturale, il resto è affidato al buon senso di chi ci vive e ci viene a passare le vacanze. Ma la natura è straordinaria: basta guardarsi intorno per pensare proprio agli indiani, agli Apache e ai Sioux che in panorami come questi vivevano felici nei loro accampamenti e poi massacravano i visi pallidi. Qui c’è Jacob, che investe decine di migliaia di euro per il fuoristrada, con cui porta vivande alla malga e ragazze in discoteca: il sabato sera, quando cede alle tentazioni della vita moderna e scende a valle con gli amici a fare il pieno di vita e di rum, che sa d’esotismo e va di moda più della grappa, preparata in casa come il caffè .
E’ valle di gente rude e coraggiosa, abituata a soppravvivere con poco e a essere dimenticata dal mondo: o forse a dimenticarsi del mondo, a trascurare, chissà ancora per quanto, la corsa sfrenata al denaro, la voglia di esibire ricchezze e di conquistare comodità. La montagna della Pusteria è rimasta solitudine e coraggio. Soprattutto per chi viene in vacanza e abbandona le stradine affollate di paesetti e villaggi per cercare tra pascoli e vette scenari di idillica tranquillità, di bellezza bucolica e pastorale. E’ il verde che restaura l’anima con un semplice sguardo, è l’aria che rigenera cuore e polmoni, prima che tutto il sistema cardiocircolatorio si affanni sui sentieri della fatica, affrontando la tortura dei tornanti, in un campionato privatissimo di camminate in salita che distrugge il fisico ma esalta lo spirito di chi colleziona inverni pigri e poi scopre qui in quota il piacere del movimento, tra valli ancora non del tutto conquistate dal turismo rumoroso e spendaccione. Volendo si dorme con 25 euro a persona, in case dove i balconi sono prati fioriti di geranei, il latte arriva munto dalla stalla che è proprio accanto alle camere e regala rumori e profumi, non sempre piacevoli. Ma dopo un paio di giorni non ci si fa più caso, se per una volta si sceglie la natura e si rinuncia alla tecnologia, se ci si lascia affascinare dalle fatiche di chi tra Prato Piazza e il lago di Bries falcia ancora a mano e piega la schiena sotto carichi di fieno che pesano decine di chili ma sono più leggeri delle nostre ansie cittadine: li ammonticchiano uno sull’altro e costruiscono covoni giganteschi e splendidi, torri gialle che dominano i pascoli e trasformano i sentieri in slalom interminabili. Perchè ovunque ci si avventuri a piedi, sembra di non arrivare mai: dopo un’ora di cammino ne corre via un’altra e magari un’altra ancora, a collezionare passi, a cercare faticosamente di tenere il ritmo, a non arrendersi al desiderio meraviglioso di buttarsi in terra e non rialzarsi prima del tramonto. Tanto tutto intorno è splendore puro e non c’è paese al mondo che abbia montagne più belle di queste.
Celti e Illiri vivevano qui 4000 anni prima di Cristo: e non è soltanto astratta teoria, perchè esistono le prove concrete. C’è il cacciatore Otzi a dimostrarlo, conservato come una mummia per 5000 anni dai ghiacci eterni e spuntato fuori poche stagioni fa non lontano da qui, ritrovato con un buon aspetto sul ghiaccio del Similaun. Ma la versione ufficiale offerta dalla scienza non piace ai cultori delle tradizione che preferiscono credere a quanto ancora raccontano i nonni ai nipotini, anche se non è una favola troppo poetica: la Val Pusteria, dicono gli anziani delle famiglie, era un paese montuoso abitato da marmotte che con un sortilegio furono trasformate in uomini, messi a lavorare nelle viscere delle montagne per ricavare il ferro. In realtà, quello che le ricerche degli archeologi avrebbero dimostrato, è che gli abitanti di queste Alpi, circa 1800 anni prima di Cristo, sarebbero stati coinvolti nella cosiddetta rivoluzione del Neolitico, che in sostanza è rappresentata dal passaggio dalla condizione di cacciatore e raccoglitore a quella di coltivatore ed allevatore. Nacque così il contadino di montagna. Cioè Jacob.
“Il neolitico? Non zo”. Animo semplice e modi spartani, il gigante buono durante l’estate tiene con sè due nipoti, per una specie di tirocinio alla vita da montanari. Non hanno ancora 10 anni e li fa crescere come ometti: sanno come trattare le mucche, come preparare il burro, sanno riconoscere la maturazione del formaggio grigio, altra specialità straordinaria di queste parti. E non hanno paura di dormire soli, quando lo zio li lascia per una notte: e se proprio hanno voglia di consolarsi, prima di infilarsi a letto si sdraiano per terra e ascoltano Jovanotti.
L’inverno a scuola, tra il cemento di Brunico, l’estate in libertà, tra pendii e vallate. E riscoprono il piacere di sentirsi un pò selvaggi, senza l’obbligo nevrotico imposto dai genitori di lavarsi le mani ogni cinque minuti o di non toccare gli animali perchè “sono sporchi”. Qui si munge ancora a mano e l’emozione, per chi non l’ha mai fatto, è entusiasmante. Carolina è vacca di mezza età, abituata alle carezze e agli schiaffoni. Ma quando rientra nella stalla ama farsi toccare le mammelle cariche di latte soltanto da chi conosce bene. Ecco perchè bisogna stare attenti e non sistemarsi proprio dietro, a portata di zampa: potrebbe scalciare e massacrare una faccia. L’ideale è sedersi su uno sgabello sulla tre quarti del corpo, proprio dove si deve mungere, appena oltre il raggio d’azione della coda, che ha la stessa terribile efficacia di una frusta. E poi si comincia, non prima che le mani esperte di Huber o dei nipoti abbiano unto le tette con un po’ di olio o di grasso, per rendere più facile il lavoro. Vanno impugnate adesso, queste sacche grandi e calde che somigliano a mozzarelle, vanno strette dolcemente e spremute, ed è bello sentirle gonfie e morbide, che si ungono sempre di più mentre le mani imparano a correre via, ritmiche e veloci, salgono e scendono, strizzano e spremono, e le mammelle si svuotano e poi avvizziscono, e la mucca muggisce, si inginocchia e riposa.
Le mani che profumano di latte sono un regalo della natura: il tetrapak non ha lo stesso odore. E quel latte, con la maestria di Jacob e di altri come lui, diventerà burro e formaggio, che verrà perfino ornato con disegni e decorazioni, grazie all’arte semplice e accurata della gastronomia locale, di famiglie di contadini che sono anche raffinati cultori del bello. Le malghe diventano per questo luoghi di pellegrinaggio, santuari dove si guarisce anche lo spirito, perchè si ritrova una pace che in città è dimenticata. Da Jacob o nei pascoli dopo Tesido, verso la Mudlerhof, malga con parcheggio e produzione di miele, e una vista che è una cartolina dal paradiso e abbraccia gran parte delle Dolomiti, oppure nella meraviglia della val Casies, cieca e senza sbocchi e dunque poco trafficata e per questo rimasta ancora autentica, con poche case, rari alberghi e scarsi turisti e un monastero di clausura per una minuscola pattuglia di clarisse, che si servono ancora della ruota per ricevere le provviste senza dover guardare in viso nessuno. Ma c’è pure l’avventura, per chi preferisce scendere, piuttosto che risalire, e ama il ribollire dei torrenti, le emozioni forti di un gommone sballottato dalle onde. E’ il rafting, grande passione estiva di queste valli: in piccoli equipaggi si affrontano gli affluenti del Pusteria e chi ama il brivido e forse anche il rischio riceve in regalo l’inebriante sensazione di sentire le arterie invase da fiumi di adrenalina che sconquassano il sistema nervoso. Certo, non è il Colorado, ma questi torrenti hanno impeto sufficiente per soddisfare gli esperti di rafting e terrorizzare i debuttanti. Sono furbi, gli organizzatori: scelgono sempre un posto tranquillo per la partenza, dove il torrente scende dolcemente, quasi silenzioso. Casco sulla testa, giubbotto salvagente ben stretto, pagaia in mano: si parte come novelli esploratori, piccoli capitani coraggiosi. Poi l’acqua comincia a ribollire, le rapide diventano sempre più vicine, spuntano sassi minacciosi e il gommone si trasforma in un idrojet velocissimo e i colpi di pagaia sembrano inutili, perchè la prua va dove vuole o dove la porta la corrente. E il cuore batte e gli schizzi di acqua gelida tolgono il fiato e la paura di rovesciarsi non è più dubbio angoscioso, ma diventa una certezza, attesa quasi con un’ansia liberatoria che porrà fine a questo tormento.
Ma in coda, ben saldo a poppa, c’è il vichingo con i lunghi capelli biondi e boccolosi e i muscoli d’acciaio, la calma ferrea, l’esperienza che lo rende prudente. Punta la pagaia e il gommone evita il masso, toglie la pagaia e la prua salta sulle onde, scivola sulle rapide e plana, come un idrovolante alla fine del suo volo, con l’unico fastidio di qualche schizzo ghiacciato che può bloccare la digestione. E quando all’improvviso ci si ritrova in un laghetto, dove l’acqua è davvero e finalmente calma, il vichingo invita i passeggeri a un bagno trionfale e celebrativo: che normalmente fa da solo, perchè il fiume è gelido anche d’estate e la congestione garantita, per chi non è abituato al rigore dei circoli polari.
Rudi e coraggiosi per un attimo, per quella mezz’ora che dura la discesa. Il ristoro è a portata di mano, verso le delizie di San Candido, che chiude l’Italia in fondo alla valle ed è continua lusinga tentatrice, con i piccoli vizi leciti che restituiscono alle abitudini di sempre: lo shopping da cittadina elegante, i tavoli all’aperto, le chiacchiere lungo il corso e nelle piazzette. E un ritorno alla cultura, con un capolavoro artistico che da solo meriterebbe il viaggio: è la Collegiata, il più importante monumento romanico dell’Alto Adige, costruito sui resti di un’abbazia benedettina dell’ottavo secolo. Dieci minuti di seggiovia e si vola al Pian della Valle fino ai 1496 metri del rifugio Baranci, e poi la punta dei Tre Scarpieri e il Cornetto di Confine, a 2545 metri, per affacciarsi dove si combattè e ora si passeggia, tra ricordi antichi ed emozioni nuove. In basso, sonnecchiano San Candido e la vicina Dobbiaco, dove si rifugiò Gustav Mahler, nelle estati tra il 1908 e il 1910: scelse il maso Trenker per passare le vacanze, e oggi c’è una Malga che porta il suo nome, dove si mangia e si gioca con gli animali. Qui compose alcuni dei suoi capolavori, il Canto della Terra, la Nona Sinfonia e frammenti della Decima, ma soprattutto riuscì a restaurare l’animo, spesso tormentato e infelice. Mandò lettere agli amici, per comunicare la sua ritrovata gioia di vivere e in una, in particolare, si abbandonò a un rarissimo entusiasmo: “E’ meraviglioso qui – scrisse – e mette a posto anima e corpo”. E’ ancora così: succede ogni estate, tra le malghe e i masi, tra le valli e i pendii. Finchè Jacob, contadino di montagna, chiude il suo rifugio e con i nipoti e Carolina scende lungo il sentiero numero 7: trasloca verso la civiltà degli affanni, con il fuoristrada e i semafori accesi. Lassù restano i ricordi, custoditi dal letargo delle emozioni. Cala l’autunno, in attesa della prossima estate.