Il mattino del mondo è un’isola incantata. E’ una poesia di profumi e colori che commosse il pandhit Nehru: da primo ministro della vicina India passeggiò tra le risaie, si affacciò sui templi che sfidano l’oceano, Ulu Watu e Tanh Lot, si lasciò assalire dalle pacifiche scimmie che popolano boschi e grotte. E poi parlò. «Bali – disse – è il mattino del mondo». Era il 1954. Oggi l’alba del mattino del mondo è fin troppo affollata, i tempi moderni hanno travolto pace e quiete e anche quest’isola in alcuni tratti è soffocata dalla folla che scappa da altre latitudini e viene a cercare qui quello che altrove non ha trovato: semplicità, libertà, serenità. Kuta beach, che era un ricamo di spiaggia bianca, ormai è una piccola California di cercatori d’onde, appassionati surfisti che a mezzogiorno cavalcano le correnti e di notte inseguono altre forze della natura. E perfino Candi Dasa, che nacque proprio come alternativa tranquilla ai bagliori di Kuta, è diventata preda di legioni di vacanzieri, come tutta la costa est, quella che guarda Lombok.
La Bali che incanta è altrove. E’ lontana dai sentieri del turismo più organizzato, dalle cattedrali del tutto compreso, ma è straordinariamente vicina allo spirito dell’isola, a un pantesimo allegro e compiacente, che santifica ogni istante della giornata con un’offerta destinata agli dei, affinchè qualunque gesto sia benedetto da chi governa i destini del mondo. Qualche fiore fresco ingentilisce il cruscotto delle auto che viaggiano per la Bali avvelenata dal traffico, oltre che dalla scarsa propensione degli isolani a tenere il volante in mano. Così l’amministrazione ha deciso di far presidiare gli incroci, più ancora che dai vigili, da piccoli templi votivi, ai quali viene attribuita una benefica influenza sul controllo della circolazione.
Ma è bella Bali, poetica e dolce, come un bambino che appare indifeso nella sua ingenuità. Il rispetto che invoca non è mai un obbligo, ma è affidato alla responsabilità di ognuno. Come succede nei piccoli santuari di montagna, che sono fra le meraviglie dell’isola. C’è un grande cartello, con cui si chiede di non entrare alle donne incinte o indisposte, a quelle con figli che non hanno ancora messo il primo dente, alle persone in lutto, ai pazzi: nessuno controlla queste che sono considerate impurità, capaci di offendere il tempio. Ma tutti i balinesi le rispettano. Al contrario dei turisti. Quassù non ne vengono molti, ed è un bene. Perchè in queste zone, nel cuore dell’isola, alle pendici del monte Batukau e delle altre vette, c’è ancora la Bali com’era, quella di Nehru, quella del mattino del mondo.
Le risaie si coltivano come allora, quando nei villaggi non c’erano le antenne paraboliche e la sera si andava a dormire alle otto: ora si fa più tardi, perchè c’è la televisione. Ma alle sei della mattina gli agricoltori balinesi si arrampicano sulle coltivazioni a terrazza, ceselli di un’arte che consente la sopravvivenza e che forse regala più gioia agli occhi che denaro ai contadini. Sono ricami sulla montagna, sono un serpente infinito di merlature verdi, chiare, scure, sfumate, brillanti, che si piegano al vento e cambiano colore e poi mutano ancora tinta, quando l’aria torna calma, sono gradinate di uno sterminato teatro greco dove si recita ogni giorno la tragedia felice della fatica: cappello triangolare in testa, i contadini passano le ore piegati fino a terra, per curare i loro piccoli tesori, quelle minuscole piantine che maturano tre volte l’anno, evento unico nel mondo del riso che normalmente concede soltanto due raccolti ogni dodici mesi e invece qui, grazie ai benefici degli dei, ne regala uno in più. Sono venuti perfino dal Giappone per studiare lo straordinario sistema di irrigazione che consente di far arrivare l’acqua anche nei campi più alti e lontani: ma le loro menti computerizzate si sono dovute arrendere di fronte a una organizzazione collettivistica delle risaie che distribuisce il cibo secondo le necessità e affida la gestione dell’acqua al titolare del campo più lontano, il più interessato al perfetto funzionamento dei canali.
Si vede nel mondo che vive ancora tranquillo intorno a Ubud, tra Bedulu e Peliatan, nello splendore incantato delle risaie, nelle voci dei monaci che affidano all’eco delle valli la cantilena delle loro nenie, nel fascino sorprendente della grotta sacra agli elefanti, dove davanti a un ritratto di Ganesh, il dio con la testa di pachiderma, ci si ritira ancora in meditazione. Perchè Bali resta isola votata ai piaceri dell’anima, in un luogo che invita a soddisfare anche i piaceri del corpo. Chi cerca la pace interiore sale fino alle montagne e ai laghi, al Batur che è piccolo specchio d’acqua dove si riflette un grande vulcano, accessibile alla sfida anche dei più pigri camminatori che in un paio d’ore possono arrivare in cima. E una volta attraversate le nuvole che avvolgono la vetta, una volta ringraziati gli dei dell’assistenza prestata fino ai 1700 metri della sommità, si può ammirare dall’altitudine un nuovo volto del mattino del mondo. La costa nord di Bali è poco oltre l’orizzonte sterminato della foresta, oltre gli ordini di tetti che sovrastano i templi per santificare Shiva e Visnù. E’ lì che torna l’oceano, il mare che per anni è stato il richiamo più forte di chi attraversava i continenti per arrivare all’isola degli dei e dei diecimila templi, enclave indù in un mondo benedetto da Allah. Ma la vera Bali, quella che regala le emozioni più intense, è nei luoghi che hanno fascino e bellezza per non lasciarsi imprigionare dalle mode fugaci: Ubud e dintorni, le montagne e i templi abbracciati dalla foresta. E’ qui che ciascuno trova il suo Dio, se lo vuole incontrare: perchè come scriveva Sheik Nurudin, profeta indiano della non violenza, «Dio è dovunque e non ha nomi, non c’è foglia d’erba che non lo conosca».