<Trieste – scriveva Umberto Saba – ha una scontrosa grazia>. E’ vero. E si vede, si sente, anche rimanendo semplicemente seduti nei caffè, abitudine esercitata con molto piacere, antica tradizione austroungarica importata con gioia e passione. Maria Teresa, imperatrice d’Asburgo, che qui furono a lungo padroni di casa, è ancora un idolo locale e incoraggiò anche qui questa passione viennese. Anche Joyce e Stendhal, nei loro soggiorni triestini, si trattenevano con soddisfazione nei Caffè. <Sono un’arca di Noè – li definisce Claudio Magris, altro illustre cittadino – dove c’è posto per tutti, senza precedenze né esclusioni>. Tra quei caffè, Magris ha la sua preferenza: <Il San Marco, periferia della Storia contrassegnata dalla fedeltà conservatrice e dal pluralismo liberale dei suoi frequentatori. Al San Marco trionfa, vitale e sanguigna, la varietà>. Questione di gusti. C’è chi preferisce i tavoli del Tommaseo, il più antico, aperto nel 1830 e poi rinnovato alla fine del XX secolo, o il Tergesteo, nell’omonima galleria che si affaccia su piazza della Borsa, o il Caffè degli Specchi, in piazza dell’Unità dell’Italia: è accogliente, con gustose invenzioni, nemmeno troppo caro, amato forse più dai turisti che dai triestini. Ma la piazza, che piazza, difficile immaginarne una più bella. Piazza Grande, la chiamano, e la considerano il salotto buono della città. E’ uno spettacolare palcoscenico che guarda il mare e ad arrivarci, dal mare, sembra che Trieste spalanchi le sue braccia, accolga come fa il colonnato di San Pietro. Qui ci sono palazzi storici, Stratti, Modello, Pitteri, Vanoli, il Palazzo del Governo e quello del Lloyd triestino, la fontana dei quattro continenti, chiamata così perché quando venne realizzata, era il 1751, l’Australia non era ancora stata scoperta. Ma è di sera, quando la luce scivola via oltre l’orizzonte, quando si spegne il rosso di un tramonto fra i più belli che un panorama urbano possa offrire, è proprio allora, con le tenebre, che la piazza dà il meglio di sé. Brillano le luci blu incastonate a terra, a segnare il confine di un’antica risacca, lì dove arrivava l’onda. L’effetto è di commovente bellezza, e chi a Trieste non vive ma resta pochi giorni, tornerà ogni sera ad osservare quelle carezze luminose che raggiungono l’anima.
E’ la piazza dei sentimenti, dove i bambini fanno i primi passi, imparano ad andare in bicicletta, gli innamorati passeggiano, i vecchi ricordano. Il 2 luglio 1914 arrivò qui la salma dell’Arciduca Francesco Ferdinando, ucciso a Sarajevo insieme alla moglie Sofia: quell’attentato diede inizio alla Prima Guerra Mondiale. E sempre qui, il 3 novembre 1918, attraccò il cacciatorpediniere Audace, al quale è intitolato il molo, riconsegnando Trieste all’Italia. Re Vittorio Emanuele III passò quella notte nel vicino Excelsior Palace, un imponente albergo dalla candida facciata, inaugurato nel 1911 e definito, nelle cronache dell’epoca, “il più importante e lussuoso hotel dell’Austria Ungheria”. Da quella notte, si chiamò Savoia Excelsior Palace. E’ un monumento, a tutto quel che ha vissuto la città. Crisi economiche comprese. Tre anni di restauri, conclusi nel 2009, lavori monumentali e minuziosi dettagli per riportare allo splendore di un tempo affreschi e vetrate, consolle liberty, specchi e preziosi cassettoni in legno di palissandro intarsiato con finiture a foglia d’oro e decori in bronzo. E come ha voluto il destino della storia, a tener alto il tricolore anche nel mondo dell’ospitalità: questo che era un vanto austroungarico appartiene ora a un’italianissima compagnia, la Starhotels, una delle non numerose catene alberghiere italiane di prestigio, di proprietà della famiglia Fabri e guidato da Elisabetta, figlia del fondatore.
egnata dalle guerre, martire della Storia, oltraggiata da nazisti e comunisti, Trieste custodisce con dolore i luoghi del tormento e degli assassinii, la Risiera di San Sabba con il suo forno crematorio e le Foibe. E se le vittime delle atroci follie di Hitler sono sempre state onorate e celebrate, gli italiani uccisi dai partigiani di Tito, dittatore comunista della Jugoslavia che occupò queste terre, oltre la morte hanno subito anche l’onta del silenzio. Perchè pure la politica ha i suoi orrori, e l’aver voluto ignorare a lungo la vergogna delle Foibe è una grave colpa di molti politici italiani. Oggi Basovizza è monumento nazionale, doloroso simbolo per i familiari degli infoibati e dei deportati deceduti nei campi di concentramento in Jugoslavia e delle associazioni degli italiani esuli dall’Istria, da Fiume e dalla Dalmazia. E tra le due memorie, la diversa considerazione è evidente ancora oggi, con numerose scolaresche in vista alla Risiera, dotata di un’interessante sala multimediale, e sparuti drappelli di studenti portati a Basovizza, una spianata con cippi e lapidi, un tricolore che sventola, alcuni pannelli e qualche video.
Trieste custodisce il dolore. Che non si separa mai dall’orgoglio. La descrivono ruvida, per colpa della bora, forse, o della storia tormentata, o dell’aria carica di sale, ma la passione per i caffè nasconde e testimonia anche una debolezza, il desiderio, o forse il bisogno, di sentirsi comunità, di stare insieme, fra la gente, di condividere. Ancora Magris, racconta che si sta <aggrappati al tavolo come un naufrago sbattuto dalle onde>. Trieste è la città del vento e la bora è il suo respiro. E’ la sfida dell’uomo che si difende dall’assalto di una forza invisibile della natura, amata e odiata, un vento impetuoso che fa soffrire quando arriva ma che manca quando non c’è. I triestini, lo ammettono, la sopportano con fatica, ma non possono stare senza. Perché avvolge la città di una luce cristallina e il mare, tormentato dalle onde, si trasforma in tempestosa tavolozza con riflessi unici. Risveglia gli animi, quel vento, distribuisce energia vitale e non fa paura, ma infonde coraggio. La bora è Trieste. Tanto da suggerire la stesura di un decalogo disincantato con consigli utili per i “foresti”, i turisti che dovessero incappare in giornate ventose. Eccone alcuni: “Se andate in piazza Unità, camminate lato Prefettura. Lato Lloyd è per power users e velisti”. “Se piove, l’ombrello non vi servirà. Si girerà al primo refolo, non riuscirete a rigirarlo e a chiuderlo e lo dovrete infilare nel primo bottino delle immondizie, ovviamente dopo averlo inseguito (il bottino)”. “Se vi vendono un ombrello dicendo che regge alla Bora, sappiate che non è mai vero: lo fanno solo con i turisti”. “Se dovete parcheggiare l’auto, fatelo contro vento. E se non riuscite ad aprire lo sportello, sappiate che l’attesa vi fa comunque risparmiare la riparazione della portiera dell’auto vicina”. Si barcolla sotto i colpi di frusta della bora, ma a Trieste il passo incerto e l’inciampo hanno anche altre motivazioni. Già con il caffè del mattino si aggiunge alcol, che sia grappa o altro, si continua con qualche cicchetto corroborante e non si smette mai, finchè non si va a letto. Pratica comune, senza discriminazioni di sesso o religione, forse soltanto di età, anche se la confidenza con il bicchiere qui è pratica precoce. Anche troppo. Tanto da stupire la cameriera iraniana di un ristorante del centro, arrivata qui da una terra senza alcol, travolta dall’amore, rimasta con gioia, diventata moglie e madre, e perfino padrona dell’accento locale. <Non bevo, sono sempre musulmana. Però qui mi piace moltissimo. Gente vera, un po’ rudi, a volte, ma onesti e generosi. Come noi iraniani>. Quella scontrosa grazia di Trieste, Italia.