Il sole delle due è impietoso in questa radura deserta. Il confine con la Birmania è a qualche decina di chilometri e qui la foresta si apre, scopre una terra desolata che alcuni monaci thailandesi hanno scelto per le loro preghiere. Solitarie, fino ad alcuni anni fa. Ora in compagnia di un nutrito gruppo di tigri.
Tiger Temple si chiama questo posto che divide animi e sentimenti, emoziona e scatena polemiche. La foto del monaco a passeggio con la tigre ha fatto il giro del mondo, un ritratto vivente dell’amicizia fra l’uomo, sia pure in profumo di santità, e il felino più maestoso e feroce. La saggezza e la forza una accanto all’altra. In libertà. E sapere che si può andare a trovarli, incontrarli, guardare negli occhi l’uomo delle preghiere e l’animale feroce diventato mansueto, diventa un’esperienza irrinunciabile.
E dunque si parte, per raggiungere questo luogo sconosciuto ma bellissimo, poco distante dalla città di Kanchanaburi e dal fiume Kwai, dove durante la seconda guerra mondiale la costruzione di un ponte voluta dai giapponesi invasori costò decine di migliaia morti. Oggi c’è una pace infinita da queste parti dove in un ristorantino di strada un ottimo pad thai, tagliolini tipici thailandesi, costa ancora 30 bath, 75 centesimi di euro. Il biglietto per entrare nel tempio, invece, esplode fino a 600 bath a persona, 15 euro – nemmeno Colosseo e Fori Imperiali costano tanto – più la firma di una liberatoria per eventuali incidenti, perché gli animali sono sempre animali. Mappa in mano, si va verso il Canyon, dove le Tigri aspettano. Con loro c’è anche Catherine, australiana con scintillante maglietta <Volunteer>, volontaria. <Aiuto nell’organizzazione – spiega – sto un mese qui, mi danno vitto e alloggio ma niente soldi. Mi piacciono gli animali e adoro con le tigri>.
Sono bellissime, enormi, una ventina, forse di più, esposte a turno alla visita dei turisti, per non farle innervosire ed evitare incidenti. <Noi volontari siamo tanti – aggiunge Catherine – da ogni parte del mondo. Italiani non ce ne sono, almeno in questo periodo>.
I volontari prendono per mano i visitatori e li accompagnano fra i felini, pigramente distesi a terra nel canyon, tra le 13 e le 15.30, dopo il pasto, quando la digestione scatena sonnolenza. E infatti fanno la pennichella, cosa che rende più semplice l’approccio fotografico. Ci si sistema dietro di loro, una mano sulla schiena mentre ronfano e il volontario al quale si è affidati scatta le foto.
Per sicurezza, la tigre ha una catena d’acciaio a una zampa. Che comunque non servirebbe a niente se fosse colta da un’improvvisa rabbia mentre qualcuno le è accanto, in posa. Quelle catene, però, sono valse a scatenare infinite polemiche su presunti maltrattamenti di questi animali. In verità, gli animali non sembrano affatto sofferenti, ma, certo, le catene non piacciono a nessuno. E poi, perché tenerle lì?
Tutto cominciò, racconta la leggenda, quando un cucciolo di tigre rimasto senza genitori, uccisi forse da bracconieri, venne affidato ai monaci. Mentre il piccolo cresceva, arrivarono altri cucciolotti e pian piano si formò un branco che iniziò a riprodursi. Oggi sono alcune decine e sono diventate un’attrazione. Perché ammirarle da vicino è un’esperienza unica.
Anche il semplice poggiare una mano su quell’animale, sentirne la muscolatura possente, accompagnarne il respiro, essere lì, accanto a una tigre, è indimenticabile. C’è timore, anche, che si accompagna al rispetto.
Poi ci sono i suggerimenti di chi non incoraggia ad andare a visitare il monastero, spinti a volte da considerazioni prigioniere del politicamente corretto: ma allora non bisognerebbe visitare la Birmania e nemmeno il Vietnam o la Cina, dove i governi non sanno cosa sia la democrazia e non sono gli animali ad essere maltrattati, ma popolazioni intere. Non si doveva andare a Mosca e Leningrado e in tutto il blocco dell’Est o nella Spagna di Franco e oggi andrebbero trascurati l’Iran e quei paesi arabi, molti, che discriminano i gay e le donne. Ragiono sempre con la mia testa e non mi esprimo mai su quel che non conosco: ora che sono andato al Tiger Temple, dico che quelle tigri sono diventate parte di uno spettacolo, con biglietti accessori per assistere al loro pasto e per fare fotografie mentre passeggiano con i monaci. Ma forse se fossero rimaste in libertà i bracconieri le avrebbero uccise. Non mi dispiace essere arrivato fin lì, non me ne pento e se tornassi indietro lo rifarei. Anche se mi aspettavo qualcosa di più e di meglio, mi aspettavo poderosi animali in completa libertà, perché quello sarebbe stato il miracolo dell’incontro fra la fede e la ferocia. Non è così. Ma quella mano poggiata sulla tigre accanto al monaco che non vuole nemmeno essere sfiorato è un istante raro. Vola nell’album dei ricordi. E ci resta per sempre.