La sorpresa arrivò subito, appena salito in aereo. Perchè se le coccole in alta quota non ci stupiscono più, abituati come siamo a menù da grand gourmet anche a diecimila metri da terra, la meraviglia esplode quando troviamo anche in volo qualcuno o qualcosa che si prenda cura della nostra anima. Mi era successo un’altra volta, tornando a Los Angeles dalla Bassa California. Insieme alla colazione mi servirono un foglietto, un vero santino con una preghiera sul retro. Chiesi al capocabina dell’Alaska airlines se era un’abitudine oppure se lo avevano fatto perchè prevedevano una turbolenza particolarmente violenta. Rispose con un sorriso e se ne andò.
Ma quando sono salito sul 747 della Iran air, la linea aerea della repubblica islamica dell’Iran, ho sgranato gli occhi davanti alla pray room, la stanza della preghiera, dove dal decollo all’atterraggio un’incessante processione di fedeli ha continuato a inginocchiarsi in direzione della Mecca, che l’equipaggio provvedeva diligentemente a indicare servendosi di una freccetta che veniva spostata ad ogni virata. Una moschea volante, perchè l’applicazione del corano è la legge che regola la vita in quella che fu la patria di Khomeini e nulla sfugge all’occhio vigile di Allah, dalle intenzioni dell’animo ai piccoli gesti della vita quotidiana: anche quando si vola.
Ero in albergo, uno dei grandi hotel di Teheran che sono rovinosa memoria di un fasto antico. Dovevo incontrare una signora che apparteneva a una famiglia importante e in passato era stata vicina allo Scià. Non ci conoscevamo, ma al telefono ci eravamo detti che ci saremmo riconosciuti. E così accadde. Con quegli strani segni del destino, ci fissammo nella hall, convinti entrambi di sapere chi fosse l’altro. Lei venne verso di me con un sorriso discreto, avvolta da un soprabito nero ma con il viso scoperto, dimostrazione di una adesione critica all’islamismo che impone alle donne di velarsi anche il volto. Senza pensarci, andai verso di lei come avrei fatto in qualunque altra parte del mondo, porgendo la destra, per una calorosa stretta di mano. Precipitò il silenzio nella hall. E mi sentii addosso gli sguardi di decine di occhi che mi fissavano con riprovazione. Nell’Iran della purezza religiosa, uomo e donna non devono toccarsi in pubblico, non possono neppure sfiorarsi e, dunque, non sono autorizzati nemmeno a stringersi la mano in segno di saluto: l’avevo letto, lo sapevo, ma ci avevo pensato, prima di fare un gesto che noi consideriamo banale.
Nessuna reazione esplicita, nessuna violenza. Neppure quando mi sono seduto per parlare con la signora, che da sotto il pastrano nero lasciava fare capolino a un paio di gambe saettanti appena coperte da una minigonna audace anche per noi. E’ stata lei a suggerirmi di osservare le giovani coppie che si ritrovavano, proprio in quell’albergo, per bere un tè. Intimiditi, irrigiditi, a quella che il Corano prescrive come rispettosa distanza e che gela animi e passioni. Li ho visti anche nei parchi, nei bei giardini di Teheran, attrezzati di panchine e alberi nascondi-tutto: lì ho incontrato un’altra realtà, più simile alla nostra, dove chi dice di amare sa come manifestare i propri sentimenti.
Teheran è stata città di sofferenza, ma non dimentica la gioia di vivere. I giovani che hanno possibilità e denaro, sfidano i divieti lungo quella che si chiamava Jordan street e adesso è viale Africa, dove spuntano locali e sfilano auto e dai finestrini abbassati ci si scambiano numeri di telefono per conversazioni e conoscenze privatissime. E’ la strada della trasgressione e dei negozi di intimo: sanno essere ardite, in privato le signore. Sotto il chador, tutto. O niente. Dai jeans alla mini al perizoma.
Vivere da autentico sciita non è facile. E se i palazzi del centro e della periferia sono affrescati con i volti di Khomeini e degli altri ayatollah, la febbre del dollaro comincia a corrompere gli animi. Donne, vodka, caviale di contrabbando: si trova tutto quel che si desidera, come in qualunque altro posto del mondo. Perchè la legge è severa, ma si infrange ugualmente. Anche se la gogna è condanna frequente, come la lapidazione o la pena di morte.
I soldati di Dio controllano giorno e notte strade e locali, a caccia di violazioni della moralità islamica. Chi viene sorpreso dopo le undici idi sera in compagnia di una donna che non è la propria moglie, nè la figlia e neppure una parente stretta corre rischi con conseguenze a volte inimmaginabili. Non c’è orario, invece, nel tempio di Khomeini, nel santuario dell’Imam, dove i pasdaran cantano anche di notte, con quel ritmo forsennato che trasforma le preghiere in un frenetico contorcersi del corpo: a occhi chiusi recitano i versetti del Corano, battono le mani e dimenano la testa, mentre le spalle ondeggiano e la schiena si incurva fino a terra, per rendere omaggio alla potenza infinita di Allah. Intorno a loro, scorre senza tempo la vita quotidiana di famiglie che davanti alla tomba mangiano e dormono, bambini che giocano a pallone, camionisti che d’estate cercano riposo e si rinfrescano, dopo ore di guida sotto il sole, accanto ai giganteschi soffioni dell’aria condizionata.
E’ l’Islam generoso e tollerante che da casa nostra è difficile riuscire a immaginare. E’ l’altra faccia della violenza, che pure viene predicata, ogni venerdì, nella preghiera che infiamma lo stadio, stracolmo di uomini e donne che separati da un muro ascoltano gli Imam e poi urlano contro gli Stati Uniti e Israele, contro l’Occidente «depravato». Ho provato prima imbarazzo e poi paura, quando mi sono ritrovato circondato da decine di migliaia di barbuti uomini di fede, che nell’estasi mistica della loro religione avrebbero obbedito a qualunque ordine. Alla fine gli è stato detto soltanto: «Tornate nelle vostre case». E il giorno di festa si è consumato come tutti gli altri, nelle case del tè rimaste aperte, con pipe, datteri e dolci di miele. Mentre come ogni sera, il vento che scende dal monte Alborz gonfia i chador neri delle donne, le rondini nere di Teheran, saltellanti uccelli umani sui sentieri del Medio Evo.
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