L’imbarco è sgangherato, quattro piloni di legno infilati nella sabbia, una barriera un po’ malferma per l’approdo sempre impetuoso dei vecchi traghetti arrugginiti, i dragoni dello Huangpo, imbizzarriti dalla corrente. Sono gli autobus d’acqua per i pendolari a due ruote, un piccolo esercito di lavoratori che in bicicletta e motorino non si infilano nei tunnel che corrono sotto il fiume ma lo attraversano galleggiando. La domenica il ferry diventa la barca della gita e del picnic, si affolla di bambini vestiti a festa che i genitori torturano di fotografie: lusso semplice, consentito pure a chi in questa Cina fatica ancora a mettere insieme il pranzo con la cena. Si pagano due yuan per andare da una parte all’altra di Shanghai cavalcando le onde dello Huangpo, affluente del grande Yangtze. Alla biglietteria si consegnano le monete e si riceve un gettone di plastica da infilare nel tornello per salire a bordo. A fine giornata li recupereranno per utilizzarli il giorno dopo: un modo per non stampare biglietti e risparmiare carta, anche se l’ecologia è scienza ancora sperimentale nella vita dei cinesi moderni. Di davvero differenziato, nella Shanghai di oggi, c’è soltanto il tenore di vita. Chi naviga comodo nel lusso, chi arranca nelle difficoltà. Un comunismo di mercato che stordisce e fa girare la testa.
IMBARAZZI SUL FERRY Come questo traghetto. La traversata è breve a bordo del ferry e quei pochi minuti consegnano a un divertente imbarazzo. Ci si sente come a un incontro di tennis, con la testa impegnata a girarsi continuamente da una parte e dell’altra. Perche non si sa più quale riva guardare mentre si attraversa questa frontiera liquida: da una parte il Bund, la città vecchia con il suo fascino antico, chiamata Puxi (si pronuncia pussy e gli americani sorridono…), dall’altra Pudong, il futuro già arrivato, la Manhatthan cinese con grattacieli stupefacenti e case da 20 mila euro al mese.
LUSSO E RACCOGLITRICi DI CICCHE L’America è qui, poche chiacchiere, nascosta come una sorpresa nel sottosuolo ed esibita in arditissime sfide architettoniche. Come alla fine della Fifth avenue, spunta anche qui la mela mordicchiata dell’Apple, irresistibile tentazione a scendere sotto il livello stradale, con l’ascensore di cristallo o con le scale: negozio scintillante identico a quello di New York, anche se con un terzo dell’affollamento. Dentro, stessi articoli e stessi prezzi. E mille dubbi, perché ci si chiede chi possa averli, questi soldi da spendere. Le perplessità aumentano perfino, quando si attraversa una corte con bar, aiuole di viole e begli alberi, tenuta pulita da una vecchia armata di scopa il cui compito è soltanto badare che in terra non sopravviva una cartaccia né una cicca: appena vede qualcosa la infiocina e la mette nel secchio portatile. Deve essere lindo e luccicante l’ingresso allo shopping center più lussuoso della città, il mitico Ifc, la valle dei desideri, il sentiero dello sfarzo, il viale dorato che declama i marchi più costosi e pregiati di gioielli e abiti: Chanel, Bulgari, Gucci, Van Cleef&Arpels, Piaget, Cartier, Dior, Tiffany, Hermes, De Beers, Chopard, Frank Muller, uno dietro l’altro come una collana di delizie. E poi c’è anche Cova, la pasticceria milanese che da via Montenapoleone, dove sta dal 1871, ha aperto qualche succursale anche qui. Ancora America. Con Adidas, Nike, Calvin Klein, DKNY. E poi, fuori dalla porta, in azione poco lontano dalla vecchia raccoglitrice di briciole di carta e mozziconi di sigarette, c’è l’uomo che lucida i corrimano per centinaia, migliaia di volte al giorno, guardando fisso quegli ottoni e disperdendo lo sguardo tra chi gli passa accanto senza nemmeno vederlo. Proprio come in America. Intorno, c’è anche chi non mendica ma solo perché non può, è vietato: e invece vorrebbe e di sicuro ne ha bisogno. Ancora come in America.
MINIGONNE E AUTOREGGENTI Frusciano intorno ragazze in minigonna, in calzoncini con bordo dell’autoreggente in vista, non per sbadataggine ma per una malizia pensata con gli occhi a mandorla. Alcune sono davvero belle, le cinesi che non ti aspetti: alte, gambe lunghe e dritte, poco seno ma si rimedia, la mano dell’uomo ha cominciato a correggere anche qui qualche distrazione della natura. A quasi tutte, comunque si concino, manca ancora la grazia femminile, il fascino naturale, vorremmo dire: camminano come guardie rosse, con il garbo di valchirie d’Oriente. Mentre gli uomini mantengono vive le tradizioni e fanno sentire la loro presenza rantolando come se quello che stanno per fare fosse l’ultimo respiro. Invece stanno benissimo e vogliono soltanto annunciare a tutti che non intendono rinunciare alla pratica antica e orgogliosa dello sputo. Ovunque si trovino, chiunque abbiano intorno.
IERI E DOMANI Shanghai è insieme ieri e domani, una metropoli consumata dalle aspettative, ansiosa di dimostrare che l’Expò non ha affatto esaurito le sue potenzialità, che ha ancora molta voglia di fare. Dicono che il futuro si scriva qui. I primi capitoli sono già stati pubblicati: in una dozzina d’anni sono stati costruiti 400 chilometri di strade ad alta percorrenza, 10 linee di metropolitana, dall’aeroporto si arriva con il treno a levitazione magnetica, viaggia a 300 all’ora senza toccare le rotaie, le fabbriche sono state spostate dal centro alla periferia e sono sbucati 4 mila grattacieli fra i quali lo Shanghai World Financial Center, conosciuto come l’<apribottiglia> perché costruito proprio con quella forma, per qualche anno il palazzo più alto di tutta la Cina, con i suoi 492 metri. Ora un altro edificio in acciaio e cristalli l’ha superato, proprio lì accanto, ma fra breve ne arriverà un altro e poi un altro ancora.
ALIENI LUNGO IL FIUME E’ Pudong questa foresta di grattacieli, un quartiere che venti anni fa si immaginava soltanto e che con una rapidità impressionante continua a crescere. Con forme futuristiche, al limite, e anche oltre, dell’immaginabile. Fra il disco volante, è stato il centro culturale dell’Expò, e la torre della televisione, sembra davvero di essere sbarcati su un’altra galassia. Al punto che la torre, affacciata sul fiume, è vanto e orrore di questa città, troppo simile a un gigantesco alieno, un marziano alto mezzo chilometro arrivato chissà come e chissà da dove, perfino esile nella sua stravaganza corporea ma ugualmente minaccioso, reso deforme da un rigonfiamento a mezza altezza, un pancetta viola di giorno e verde scintillante di notte, e da una testolina dello stesso colore, sostenuto da zampette poggiate a terra in modo irregolare, come uno scarafaggio zoppo ma pronto a scattare da feroce nemico e a marciare per distruggere tutto quello che gli sta intorno.
NONNA XU E IL MERLETTO DI RUGHE Shanghai è unica, anche nella cultura della tradizione. Così proiettata in avanti, così attenta a difendere il proprio passato. Tianzifang è un pezzo di città risanato e trasformato in un centro commerciale, un luogo dove passeggiare piacevolmente fra boutique, ristorantini, sale da the, internet point. Chi abitava qui, nelle vecchie Shinkumen, le case di pietra, se ne è andato, convinto a farlo con incoraggiamenti in denaro o con energia politica. Tutti tranne Xu, ottant’anni di testardaggine che resiste nella sua stanza ed è diventata una specie di monumento vivente alla Cina di un tempo. La sua finestra con sbarre si affaccia al piano terra verso la metà di Janguo middle road, una strada che costeggia Tianzifang, e interrompe la serie di negozi e ristoranti. Non ci sono luci sfavillanti o cachemire a prezzi vantaggiosi ad attirare sguardi o incantare clienti. Davanti alla sua casetta c’è silenzio e buio, una parentesi di Cina maoista fra gli splendori apparenti di quest’epoca moderna. Nonna Xu non sempre si accorge di essere osservata, neppure se capita di guardarla mentre mangia, seduta al suo vecchio tavolo, sistemata quasi di spalle alla finestra in modo che la luce arrivi su quella scodella di legno dove da chissà quanto tempo rimestola con un cucchiaio per nutrisrsi di zuppe e verdure, qualche pugno di riso, un po’ di carne. Ha i capelli bianchi e lucenti, un viso che è un merletto di rughe, un abito a fiori blu con il colletto alla coreana. E il nulla intorno. Il tavolo, di legno scuro, segnato dagli anni, è in quella che sembra una cucina, con pentole sparse qua e là, qualche piatto di plastica con disegnini a colori, quelli che un tempo si usavano anche da noi nelle mense scolastiche, ma che ora non piacerebbero più nemmeno ai bambini. Forse c’è un’altra stanza per dormire, o forse dorme qui: erano vecchie case che avevano in comunque bagno e fornelli, e questa di Xu non sembra aver avuto alcun ammodernamento. E chissà perché non se ne è andata, perché ha preferito rimanere fra antichi disagi e vecchi ricordi. Vorrei chiederglielo, ma non sappiamo come spiegarci. Tra un boccone e l’altro <sente> di essere osservata e si gira. E fa quel che non ti aspetteresti mai da un’anziana donna disturbata a casa sua. Poggia il cucchiaio nella scodella, mi guarda severa ma qualcosa di me deve andarle a genio. Perché si alza, un po’ a fatica ma ben salda sulle gambe, e mi viene incontro. Non sorride, non grida, non agita dita in segno di protesta. Con una mano si appoggia alla sedia e con l’altra impugna la scodella, prima di affrontare questa traversata di un metro tra il tavolo e le sbarre della finestra alle quali, ormai, mi sono aggrappato. Passa una manciata di secondi prima che lei arrivi da me. Adesso sì, adesso mi sorride: poggia la scodella sul davanzale, arpiona un po’ di riso con il cucchiaio e lo infila tra le sbarre, all’altezza della mia bocca.
LA GIOIA IMMENSA DI UN PICCOLO GESTO In un decimo di secondo, penso tutto. L’età, le malattie, le schegge di legno del cucchiaio, i batteri, la sars, l’infezione dei polli, anche la piorrea, che devasta denti e gengive. Poi la guardo negli occhi e penso che quel gesto è per lei una gioia immensa, un modo per interrompere una solitudine che deve essere devastante. In fondo, è come un invito a pranzo, la soddisfazione di poter offrire qualcosa e condividere del cibo. Mi viene in mente tutto, mia madre che mi diceva, anche a 30 anni, di masticare bene e fare bocconi piccoli, papà che era schizzinoso come un damerino, mia moglie Carla che se fosse qui mi strattonerebbe per impedirmi di fare quell’assaggio ma magari andrebbe dentro a pulire la cucina della vecchietta. L’unica che forse mi incoraggerebbe potrebbe essere mia figlia Eleonora: <E dai – mi direbbe – hai mangiato tante schifezze, falla contenta>.
Sorrido a Xu e vado. Azzanno con il solito effetto alluvione, tanta saliva richiamata in bocca per annegare il cibo in una cascata di liquido autoprodotto. Metto in bocca e mando giù, attento a non passeggiare con la lingua sul cucchiaio. Non sa di niente questo riso con atomi di pollo e verdurine, in fondo meglio così. Faccio finta di masticare, per far passare qualche istante mentre Xu mi guarda soddisfatta. Le chiedo a gesti di entrare, per dare un’occhiata in questa Cina che non avanza. Lei capisce quel che voglio, ma dice no. E per non sembrare scortese prepara un altro cucchiaio. Questa volta anch’io, con garbo, rifiuto. E l’incontro, in pratica, finisce qui. Ma il suo addio è da vecchia nonna premurosa: con la sinistra tiene la scodella ben ferma sul davanzale interno, infila la destra fra le sbarre per arrivare al mio viso e mollare la carezza più ruvida che abbia mai ricevuto. Chissà cosa hanno fatto quelle mani, quali arnesi da lavoro hanno impugnato, quante lacrime asciugato, quante facce consolato, quante volte si sono scontrate l’una con l’altra per un gesto di gioia o di sorpresa. Adesso ne ho una sulla guancia sinistra e ci poggio sopra una mano mia. Poi mi allontano. Mi giro un paio di volte, e Xu è li, fra le sbarre, che mi guarda andar via.