Resiste. E lascia che la pelle del viso si tenda come i fili delle canne da pesca, lascia che le labbra diventino sottili e lunghe come il becco del pesce trombetta. Ma poi cede, la vecchia Tahina, settant’anni ricamati dal sole che le ha scolpito di rughe la fronte e le guance: e quando l’allegria la travolge, quando abbandona il pudore che le serrava la bocca e si apre al sorriso, nel deserto delle gengive brilla l’unico dente, il monumento ai caduti, il suo orgoglio e la sua vergogna. A Manihi non c’è ancora il dentista, un lusso esagerato per questi quattrocento abitanti sperduti nel Pacifico del Sud, nell’arcipelago delle Tuamotu, la Polinesia più Polinesia: distesi tra un arcobaleno di azzurri che divide il cielo dal mare ci sono isolotti sottili come sogliole, vestiti di ciuffi di palme, attrezzati con i rifugi per gli uragani e le antenne paraboliche, per avere un’idea di quello che succede nel mondo.
La civiltà degli affanni è lontana dalla risacca della laguna ma è riuscita a spedire fin qui qualche segno dell’avvelenata società dei consumi. Per spostarsi dalla selva di bouganville e ibiscus del giardino di casa e arrivare fino al porto, poco più di un chilometro, Xavier usa il Typhoon, scooter scoppiettante, utile solo per spendere un po’ dei soldi guadagnati con la coltivazione delle perle nere, che qui crescono come i pomodori a Pachino. E all’imbarcadero spegne il motorino e accende il fuoribordo, per navigare verso settimane di solitudine famigliare, lui, la moglie e il piccolo di due anni, prigionieri di un eremo marino, una baracca di dieci metri quadrati piantata al centro della laguna e fuori dal mondo: coltivano le perle e sopravvivono, senza bagno nè televisione, ma con cassette di birra e il patè di campagna comprati al supermercato di Jean Marie, la prima bottega accanto al rifugio antiuragano.
«Quando ero giovane era tutto diverso – ricorda Tahina – Allora i miei fratelli andavano in fondo al mare per raccogliere le perle: ora sono le ostriche che vengono su». Le fecondano in provetta, con una specie di inseminazione artificiale dal risultato quasi garantito, poi le lasciano maturare in mare, ben assicurate alle corde che tirano su quando è tempo del raccolto. Il mondo cambia anche quaggiù, ma quaggiù non cambia niente. La sabbia resiste rosa e intatta e l’acqua scolorisce e diventa bianca e poco più in là è verde e blu e turchese e poi si accende di un azzurro che Giotto avrebbe rubato per dipingere i suoi Santi. Questa terra è un paradiso in riva al mare, con i bambini che non hanno ancora scoperto i videogiochi e per divertirsi saltano a cavallo degli squali, catturati dai genitori e rinchiusi in un aquapark naturale, per farsi trascinare su un surf con le pinne, inquietante ma innocuo. Al punto che la merenda con la comitiva degli squali è diventato appuntamento per amanti delle forti emozioni.
«Shark feeding» hanno battezzato questa sfida negli abissi che non è spettacolo al quale assistere dalla platea della barca, ma show con la partecipazione diretta del pubblico. I navigatori polinesiani seminano in mare pezzetti di pesce sanguinolento, per attirare gli squali che non fanno complimenti e arrivano subito, tanti e famelici. In acqua si entra con la maschera ma senza pinne, perchè troppo movimento infastidirebbe i pescecani: e farli arrabbiare non sarebbe prudente.
Lo squalo a portata di fauci non fa paura, terrorizza. Appare gigantesco e agilissimo, veloce e spietato. Ogni boccone è un film dell’orrore, perchè quando apre la bocca, quando spalanca quella gigantesca caverna dentata, non morde la preda, ma la azzanna, strappa la carne con una voracità cattiva, come se volesse far soffrire il più possibile chi sta divorando. «Shark feeding, nessun problema» ripetono i polinesiani, che hanno scoperto un’altra industria remunerativa e per loro senza costi. Ma capita spesso che almeno uno squalo si innamori di qualche turista e lo fissi, durante la merenda. Succede che il pescione si blocca, sospeso nell’acqua come un elicottero sottomarino, e interpreta la parodia di un duello: lui armato di zanne contro uno sventurato ingessato dalla paura. Basta un colpo di coda perchè il killer con le pinne riprenda la sua traiettoria, con la velocità e la violenza di un ariete intenzionato a sfondare la sua preda: sott’acqua non ringhia, ma è come se lo facesse, con quel muso affilato e sinistro. «Se attacca – suggeriscono prima delle immersioni – dategli un pugno nell’occhio». Non è mai successo: o almeno, così dicono.
Sono le emozioni a gonfiare l’animo, perchè per riempire il cuore, da queste parti, basta dare un’occhiata intorno. Un capriccio della creazione ha sparpagliato in mezzo al Pacifico meravigliose briciole di terra e non c’è posto al mondo che sia più desiderato, sognato, amato e rimpianto di questi sottili grissini di sabbia bianca che formano le Tuamotu o delle morbide, burrose molliche verdi di Tahiti, Bora Bora e delle altre isole della Società, distese sul mare come soffici cuscini dove la vita è dolce, sonnolenta, pigra. Dici Polinesia e pensi a un fidanzamento con la natura, all’aria finalmente pura che arriva dal nulla, da settimane di corsa nel vuoto senza aver mai incontrato altre terre, immagini i pesci colorati, i cespugli subacquei di corallo, i boschetti di palme e banani, gli intrichi di felci. C’è tutto, con gli optional offerti dall’industria turistica che trasforma il pavimento dei bungalow in un maxischermo di cristallo, una lente d’ingrandimento nell’oceano, per ammirare nell’intimità pesci e coralli e lasciarsi incantare da un mondo con le onde che distribuisce carezze sonore, perchè di notte culla sonno e risvegli e di giorno accompagna gesti e pensieri. E ci sono le spiagge e le montagne, c’è Bora Bora, la diva degli oceani, un biscotto verde inzuppato nella laguna più bella del mondo, c’è Rangiroa, un anello di sabbia che chiude l’atollo più grande del pianeta, c’è Huahine, dolce come il miele che produce e punteggiata di marae, gli edifici sacri degli antichi melanesiani. E poi Raiatea, la madre di tutte le isole, Tahaa, la cattedrale di vaniglia, Moorea, sbocciata nell’oceano a forma di cuore e separata da Tahiti da un sottile tratto del mare della Luna.
Questo è proprio un altro mondo. Perchè Terry ha rinunciato ai soldi della California ed è tornato alle sue isole, dove l’ultimo cannibale aveva accudito la nonna: adesso è felice di poco, anche di un solo gesto, quando a Raiatea il gabbiano Jonathan lo vede dall’alto e lo riconosce, gli volteggia intorno per qualche minuto e poi cala in picchiata verso il suo braccio, verso il pollice e l’indice che stringono un invitante bocconcino di pesce. L’altro mondo è qui, perchè il legionario Alfred non ha mai smesso di sentirsi combattente, ma ha riposto fucili e dimenticato torture e a Taha coltiva con amore filari di vaniglia e vive ubriaco di profumo e pure di rum, che produce da solo, per sbornie privatissime e frequenti. L’altro mondo è qui, perchè la piccola Tamatea va a scuola in barca, cinque minuti di motoscafo per attraversare la laguna di Manihi e ogni mattina piange quando la madre le impone la cerata gialla, utile e comoda per proteggerla dall’acqua e dall’umidità ma troppo diversa dai giacconi che vede in televisione, grazie alla parabolica piantata in mezzo all’Oceano, indossati con gioia dalle sue coetanee francesi. L’altro mondo è qui, perchè se a Moorea fai il bagno con Maui senti davvero un impeto di affetto crescere dentro, salire dallo stomaco alla gola e poi esplodere nelle mani che accarezzano questo robusto giovanottone mentre sguazza in acqua con straordinaria agilità, e poi salta, si gira, piroetta, precipita negli abissi e in un attimo è trenta metri più lontano: perchè Maui è simpatico e affettuoso e per farti capire che ti vuole bene ti accarezza la testa con la sua pinna più grande. Perchè Maui è un delfino.
E’ un altro mondo, dove resistono ancora riti e tradizioni antiche. Sono le grandi conchiglie strappate ai fondali ad annunciare che sulla banchina del porto sta per cominciare l’asta per il pesce. E sono i pahu, i tamburi scavati nei tronchi di cocco e ricoperti con pelle di squalo, a dare il via alle danze, affidati alla maestria di suonatori abilissimi che li accarezzano con dita di velluto, per dar voce alle più lievi sfumature, e poi colpiscono con l’energia ciclopica di bicipiti ornati di tatuaggi, per scatenare ritmo e frenesia. Perchè il tamurè, la danza degli atolli e delle isole merlate dai monti, è cerimonia religiosa e allusione erotica, provocazione e corteggiamento.
Ogni movimento ha un significato preciso: e se il braccio sinistro che disegna un cerchio passando sopra la testa vuole rappresentare l’arcobaleno, se le braccia che si flettono verso il torace e si distendono subito dopo mimano la forza del vento, il bacino che ondeggia, rotea, frulla, salta, non lascia molto spazio all’immaginazione e serve per accendere desiderio e fantasia erotica. Mareva è una delle star del tamurè, è giovane e bella, con gli occhi da gazzella e gli zigomi che farebbero invidia a Zeudy Araya: ma quelli del volto sono particolari trascurabili quando si prepara per lo spettacolo. Sogna un abito da sera, un vestito lungo che le fasci il corpo, per nascondere almeno un pò della bellezza che deve esibire, vorrebbe scarpe con tacchi altissimi per passeggiare su pavimenti preziosi, su marmi e parquet, invece di affondare nella sabbia. Ma è tra le palme che deve scatenare la passione di chi la guarda, con una mini di paglia e due conchiglie che imprigionano il seno. Per sbalordire, sfodera in camerino l’arma segreta offerta dalla natura: lentamente, lascia correre la mano su tutto il corpo, per avvolgerlo con le trasparenze seducenti dell’olio di cocco. Finchè è pronta per la ribalta.
La luce le infiamma la pelle, che cattura gli sguardi e i pensieri, il rullo del pahu diventa assordante, cresce, rimbomba, esplode. E tace, quando di Mareva resta soltanto una traccia dolce di profumo di tiarè mentre le onde del mare affidano alle chitarre i loro racconti, per narrare le gesta dei fieri antenati, dei pionieri che conquistarono gli Oceani, migliaia di anni fa. La Polinesia è dolce e romantica, ma è stata coraggio e anche crudeltà. Navigavano tra le Hawaii e la Nuova Zelanda, tra Rapa Nui e le Tuamotu più lontane. Si ritrovavano a Raiatea, la mitica Hawaiki, l’isola sacra, madre di tutte le isole. Era il tempo di Gesù, quando da queste parti gli alisei gonfiavano le vele di pandano e spingevano lunghe piroghe, il cannibalismo era abitudine quotidiana, come i sacrifici umani e la feroce tradizione che consentiva agli Arioi, i grandi capi, di scambiarsi le donne e uccidere i figli, per evitare condizionamenti affettivi. Tempi duri, altro che isole dell’Eden. I riti si celebravano intorno ad altari di pietra chiamati marae, fortezze massicce, dall’aspetto truce e sinistro, dove si invocavano dei e antenati. Erano luoghi sacri e il più sacro tra loro era Taputapuatea, sulla punta meridionale di Raiatea, da dove partì la colonizzazione di tutta la Polinesia orientale.
Il monumento sta ancora lì, resiste da secoli all’assalto dei venti e delle tempeste e ora pure alle offese dei turisti, sfida il tempo come un Colosseo affacciato sull’Oceano, senza archi ma con gradinate rocciose dove alloggiano ancora poteri occulti, energie magnetiche, forze invisibili e straordinarie, capaci di placare le onde dell’Oceano e riportare la pace nella mente degli uomini. Serve la notte di luna piena, o una delle tre successive, perchè la magia possa compiersi: ma bisogna essere soli di fronte al marae, con le spalle alla montagna e lo sguardo verso l’infinito, e scrutarsi dentro, cercare con il cuore i pensieri cattivi, le emozioni negative, le abitudini maligne, i difetti antichi di cui pentirsi, e poi recitare un atto di dolore pagano o, meglio, scrivere l’elenco dei propri mali su un foglio di carta e bruciarlo sulle pietre secolari. La catarsi, la purificazione dell’animo, si compie così: chi non si fida della fede potrà guardarsi intorno e quando vedrà cani o gatti, maiali o capre, sappia che quelle sono le incarnazioni dei Tupapau, gli spiriti che, se vorrà, lo aiuteranno a migliorarsi.
Merita il viaggio, Raiatea, solo per l’emozione di questo marae, anche se è tra le pochissime isole della Polinesia che non hanno nemmeno una spiaggia. Ma gli dei la vollero come loro sede e la preferirono, rocciosa e cupa, all’incanto di altre baie, allo splendore della vicina Bora Bora, alla tranquillità di Huahine, che pure è stata culla di fervore religioso. Così hanno voluto che anche la natura onorasse Raiatea, con altre esclusive sacre non riproducibili altrove. Botanici di ogni nazionalità hanno provato a far fiorire il tiarè apetahi in altri continenti, e poi in altri arcipelaghi, e poi si sono arresi e hanno tentato di trapiantarlo nelle isole vicine. Niente da fare. I cinque petali, bianchi e profumatissimi, non sono mai sbocciati da nessuna altra parte, perchè per un mistero di cui nessuno sa spiegare le ragioni, questo fiore cresce soltanto sulla terra del vulcano Temehani, dal cui impeto nacque Oro, il dio della fertilità. E quei cinque petali, secondo la mitologia polinesiana, sono le dita di una fanciulla bellissima e disperata perchè per le sue umili origini non potè mai sposare il figlio di un grande capo di cui era perdutamente innamorata.
Di quell’amore rimane il profumo eterno e la leggenda gentile che narra una passione infelice. Anche Tarita era umile e bella, e si innamorò di un capo dei tempi moderni, ricco e famoso, arrivato in queste isole per girare un film: lui era Marlon Brando, lei una debuttante della celluloide. A Brando piacque molto la vahinè, ma apprezzò pure un’isola che visitò con lei, Tetiaroa, forse il gioiello più brillante di tutti i mari del sud, un minuscolo atollo tra Tahiti e Moorea che nessun viaggiatore dovrebbe perdere: è la prima meraviglia del mondo, perchè è il mondo com’era, e come vorremmo fosse rimasto. Se mi chiedessero di suggerire un posto per ambientare il Paradiso non avrei esitazioni: direi Tetiaroa, e cercherei di conquistarmi il soggiorno. Brando sciolse i suoi dubbi con piglio hollywoodiano, sposando la ragazza e comprando l’isola. Ebbero due figli ma Cheyenne, la loro primogenita, di una bellezza stupefacente, si suicidò, travolta dalla tragedia famigliare, perchè il fratello Christian aveva ucciso suo marito. E da allora, nessuno dei Brando si è fatto più vedere a Tetiaroa. Solo Tarita appare raramente, fasciata da un velo di cotone, un pareo leggerissimo: prende la barca e va all’isola degli uccelli e passeggia per ore tra i pesci, nell’acqua alta pochi centimetri.
La Polinesia ha mare e terra capaci di consolare le disperazioni, di accarezzare gli animi feriti: Gauguin venne qui in cerca di pace e ispirazione, la giovane Sabine, soldatessa francoteutonica dell’Alsazia, ha trovato il pentimento. Ora rimpiange di aver collaborato alle esplosioni di Mururoa: «Avremmo fatto bene ad evitare quegli esperimenti: non servono a nulla. Speriamo che non servano mai a nulla». Ma intanto su queste isole pacifiche per un po’ è stata battaglia: tra le navi francesi e quelle di Greenpeace, che hanno giocato a rimpiattino con le armi puntate, tra la polizia tahitiana e qualche gruppo di scalmanati che con la scusa della protesta antinucleare volevano soltanto creare disordini. Alle ultime elezioni del maggio scorso, però, il presidente filofrancese Gastone Flosse ha mantenuto la maggioranza, con 22 deputati su 41, ma il movimento indipendentista ha quasi raddoppiato i seggi, passando da 6 a 10. Da Parigi è stata rinosciuta a questi «territori d’Oltremare» una maggiore autonomia, ma su tutto l’arcipelago, più in alto del tricolore francese, sventolano nervose le bandiere della storia polinesiana, bianche e rosse, ogni isola con il proprio stemma. Annunciano il Risorgimento polinesiano, che vuole essere riscossa economica più che avventura indipendentista, e per questo sono accettate volentieri le sovvenzioni da Parigi e gli investimenti da qualunque altre parte del mondo: molti arrivano da Tokyo, perchè il mercato giapponese è in rapida e forte espansione, al punto che il sushi è pietanza che compare su tutti i menù e in ogni buffet. La versione nippo-polinesiana è buonissima, con fette di tonno tagliate sottili o più spesse: è la disputa gastronomica di queste latitudini, proprio come succede da noi con la pizza napoletana, che può piacere morbida o croccante.
E’ gustoso, il sushi, perfino dietetico. Sarebbe perfetto per far dimagrire il popolo di queste isole, dove la bellezza delle vahinè è naufragata senza appello, travolta da ondate mostruose di calorie e proteine. L’armonia dei corpi che stregò Gauguin, e prima di lui i marinai del Bounty, si è trasformata nel fascino bovino di enormi bambolone di pezza, troppo soffici e troppe tonde; ma anche gli uomini hanno perso ogni parvenza atletica e somigliano sempre più alla versione senile di Marlon Brando, espanso ben oltre la taglia 60. Divorano taro e frutti dell’albero del pane, banana fritta e veleni di importazione: e debordano, fin quasi a costringersi all’immobilità. E invece è meraviglioso vagare per i boschi delle alte isole della Società, arrampicarsi per sentieri e arrivare fino alle vette e ai picchi che sfiorano anche i duemila metri, da dove il panorama è un documentario di Folco Quilici. Oppure avventurarsi in bicicletta per le pianure di sabbia degli atolli e scegliere il colore del tratto di mare dove tuffarsi, per un bagno verde o turchino, azzurro o rosa. E magari cercare compagnia anche sott’acqua, per quattro pinnate con Maui, delfino affettuoso, libero di nuotare nell’oceano ma ospite volontario della laguna privata del Beachcomber di Moorea. Piroetta con Taina, sua compagna di giochi e di vita, e anche di esibizioni, quando scocca l’ora della visita dei turisti: a gruppi di sei, per tre appuntamenti al giorno, si può entrare in acqua con loro, accarezzarli, sganciargli perfino un bacetto nell’ombelico, che per noi è ardire naturalistico e per loro brivido quasi erotico: quella è zona erogena anche nel delfino, che come l’uomo e pochi altri animali, pratica il sesso non soltanto per procreare ma anche per puro piacere. Bruno è zoologo emiliano, ma con la moglie si è trasferito a Moorea, emigrante per amore degli animali: «Ogni volta che torno in Italia – racconta – mi prude il naso per due settimane: mi passa quando mi adatto di nuovo all’inquinamento. Ma qui sono contento, sto con i delfini, in una natura meravigliosa, la casa è piccola ma affacciata sul mare, con un bel giardino e tanti fiori che mia moglie si diverte a curare». E’ la favola della pace tra uomo e natura, il sogno che tutti vorremmo realizzare. Anche Giada ha abbandonato l’incubo metropolitano e per amore di un polinesiano ha lasciato Trastevere e si è trasferita a punta Matira, a Bora Bora, una delle spiagge più belle del mondo. Per mesi, ogni mattina, ha attraversato duecento metri di laguna per dar da mangiare ai pescecani e alle razze: adesso sono loro che la aspettano alla solita ora di fronte al bungalow, quasi a riva, dove l’acqua è ancora alta abbastanza per nuotare senza insabbiarsi. Giada dice che quando la sentono arrivare agitano le pinne, le muovono con una velocità insolita, le fanno festa, proprio come farebbe un pastore tedesco che saluta il padrone. Suggestione? «No. Anzi, penso che il loro arrivo non sia soltanto un’abitudine alimentare. Io mi sono affezionata: credo anche loro». E’ la Polinesia, proprio un altro mondo.