VALE IL VIAGGIO

Il Metropol di Mosca,
un hotel dove rivivere la Storia

Prigioniero sì, ma a cinque stelle, in uno degli alberghi più celebrati al mondo. Accade nel romanzo “Un gentiluomo a Mosca”, invenzione letteraria dello scrittore americano Amor Towles, fiction esistenziale ambientata nel Metropol di Mosca, monumento aristocratico di memoria zarista dove la Storia ha voluto che perfino Stalin e Mao si stringessero la mano. I destini del mondo sono passati fra questi saloni che sono ricami d’arte, fra cupole liberty e fontane di marmo, stucchi dorati e interpretazioni capricciose dell’Art Nouveau, lo stile che illuminò l’Europa tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del XX secolo. I primi ospiti del Metropol arrivarono nel 1905: la Russia degli zar perdeva la guerra col Giappone, debuttavano i Soviet, si combatteva con i disordini di Pietroburgo e la rivolta di Mosca, nelle strade echeggiavano le cannonate. Ma l’albergo risplendeva già delle sue meraviglie, anche tecnologiche – acqua calda, telefoni nelle stanze, ascensori – e illuminava quelle di Mosca.

Certo, con Lenin e Stalin ebbe il suo periodo di cupezza. Nel 1918, a rivoluzione appena conclusa, questo ritrovo di ricchi, potenti e  aristocratici diventò la Casa del Soviet, e la compagnia dei bolscevichi si trovò a lavorare, alcuni anche a soggiornare, tra incantevoli saloni e preziose stanze. Ma la loro ideologia gli impediva di curarsi del tesoro che li ospitava. “La bellezza salverà il mondo” aveva scritto Dostojevski 50 anni prima, ne “L’idiota”, ma i rivoluzionari non si dimostrarono interessati. Il comitato centrale e le grandi assemblee si svolgevano nella sala Metropol, dove nuvole di fumo oltraggiavano le vetrate, le cicche rovinano i pavimenti, disattenzioni e liti minacciavano stucchi, pareti, lampade da muro. Danni furono fatti, ovunque. Nella stanza 205, oggi è la suite 2240, vista sul teatro Bolshoi, abitava Nicolaj Bucharin, “figlio prediletto del partito”, come lo definì Lenin. Era un abile slalomista di posizioni politiche, più volte alleato e avversario di Stalin, che poi lo fece uccidere. Bucharin viveva con un cane, una scimmietta e un piccolo orso, al quale Stalin, durante una sua visita, legò al collo un nastro rosso con scritto “eliminate Trotsky” prima di farlo uscire sul balcone davanti a una folla acclamante che era stata convocata come tifosi allo stadio. Dal 1931 il Soviet si trasferì e il Metropol tornò ad essere albergo, sia pure con gli standard dell’Unione Sovietica. Ma era pur sempre a pochi passi dal Cremlino, aveva prestigio, perfino nobiltà politica, essendo stata la Casa dei Soviet.

Così, a sfogliare le pagine della storia di questo albergo, e lo si può fare osservando le fotografie esposte fra il secondo e il terzo piano, si scopre che perfino Golda Meier visse qui per alcuni mesi, quando nel 1948 era ambasciatore d’Israele. E che vi hanno soggiornato Marlene Dietrich, Bertolt Brecht, Jacques Chirac, Elton John, Bernard Shaw, Sophia Loren, Giorgio Armani, Marcello Mastroianni, John F. Kennedy, Sharon Stone, Barack Obama. Anche Oscar Luigi Scalfaro. Una miscellanea assolutamente eterogenea. Ne hanno scritto Michail Bulgakov ne “Il maestro e Margherita” e John Steinbeck nel suo “Diario russo”, dove cita anche Fiodor, il gigantesco orso imbalsamato che troneggia nella Boyarsky hall, che fu uno dei ristoranti preferiti da Rasputin, consigliere dei Romanov e in particolare dello zar Nicola II. Poi, durante il regime comunista, la Boyarsky divenne un “ristorante segreto” per gli stranieri che potevano pagare in dollari, mangiare caviale e ballare al suono delle balalaike. La leggenda, invece, racconta che Michael Jackson abbia composto qui “Stranger in Moscow”, suonando il pianoforte che oggi ingentilisce la suite di Bucharin.

Il Metropol è luogo di grande fascino. Ha visto sbocciare amori, intrighi, consumare vendette e tradimenti, è stato palestra di spionaggio, a metà strada fra il Cremlino e la Lubianka, e nasconde ancora passaggi segreti. Che nessuno usa più. Oggi sconsiglio vivamente di fare colazione in camera, per due semplici ragioni: il buffet è uno spettacolo in sé, per come è allestito e per quel che propone, dai dolci più dolci alle uova sode con differente cottura, si sceglie fra 4 o 10 minuti, e poi caviale, blinis e champagne, noodles, zuppe, un’infinità di proposte dai 5 continenti. Con il proprio piattino si raggiunge l’attigua Metropol hall, avvolta, dominata, illuminata da una cupola in vetro che risplende di motivi biblici a 25 metri di altezza, al centro della sala una fontana e sul palco, dove parlò Lenin, le dolci melodie di una suonatrice d’arpa.

 

Il Metropol è un albergo che sa raccontare la Mosca di ieri e di oggi, ed è un’enciclopedia animata della storia recente del mondo. Fu voluto dal filantropo Savva Mamontov che riunì i migliori architetti, artisti, e scultori del tempo, e Saava è ancora il nome del ristorante principale, uno dei migliori di Mosca. Oggi la proprietà è di un gruppo imprenditoriale che ha scelto come General Manager lo svizzero Dominique Godat, a lungo alla guida del The Kulm di St. Moritz, tempio del lusso e dell’esclusività. Il Metropol ha più di 400 dipendenti, squadroni di governanti che percorrono gli infiniti corridoi per badare alle 350 stanze, moderne e storiche, con mobili d’epoca e smart tv, dettagli e attenzioni, dal pavimento del bagno sempre caldo ai sensori luminosi. Offre percorsi “emozionali” per conoscere Mosca come la vivono i moscoviti, con guide che sono esperti di cibo e mercati o di architettura e storia. Ma anche un percorso, all’interno dell’albergo, sulle tracce del conte Rostov, il protagonista del libro, un bon vivant colto, curioso e appassionato pure di cocktail: amava quelli del Chaliapin Bar – esiste davvero, grande atmosfera – ispirati alle torri della Cattedrale di San Basilio, “Golden Rose”, “Brick Wall”, “Robin’s Plantain” e “Kremlin Fur Tree”. Sono nati come invenzione letteraria, ora sono sul menù del bar, molto richiesti quando si passa qui per l’aperitivo prima di andare al Bolshoi. Secondo il romanzo, solo pochi visitatori del Chaliapin erano in grado di bere tutti e quattro i cocktail in un solo incontro. Ora chi ci riesce può fregiarsi del titolo di “Patriarca”. E non sono soltanto gli uomini a brindare. Alle signore piace molto il “Robin’s egg”, tradotto letteralmente significa uovo di pettirosso: rum bianco – oppure vodka – blue curacao, succo di limone fresco, sciroppo di jasmine. Grandi cubetti di ghiaccio, colore blue. Bello perfino da vedere.

 

 

 

 

 

 

 

 

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