Vongole grosse come ananas e cozze piccole come fagiolini. Pesci enormi che solo una sega elettrica può riuscire a tagliare, fatti a pezzi vicino a sconosciuti animali pinnati e a granchi impazziti, in movimento perenne dentro cassette di sabbia, ultima prigione prima di finire in pentola o direttamente in qualche bocca vorace, senza nemmeno passare dai fornelli. E dappertutto carrelli che corrono, cigolano, portano, spostano, caricano, scaricano. In un angolo, orribili sacchi di sangue rappreso, utilizzato chissà per cosa, teste, code, pinne, una specie di fiera degli avanzi che non saranno di certo sprecati. Perché a Tsukiji, il mercato del pesce di Tokyo, non si butta niente. Nemmeno il veleno. Questa è la città dove anche a tavola si sfida il destino e perfino la cena diventa duello con la morte quando si assaggia il fugu, il pesce palla che custodisce un veleno potentissimo. Deve essere preparato in modo corretto per non uccidere, affinchè chi lo mangia non resti stecchito da quell’invisibile killer. Servono un coltello speciale e una grande abilità: il pesce palla va affettato molto sottile e in tavola viene servito a forma di crisantemo, fiore che da noi è dedicato al culto dei morti, ma in Giappone no.
Anche il fugu (nella foto accanto, prima intero e poi portato in tavola) passa di qui, in questo mercato popolato non solo da pescatori, semplici inservienti, facchini, gente che fatica e basta, ma anche da autentici chirurghi del pesce, austeri ed eleganti nei loro guanti di lattice bianco. Sezionano, tagliano, asportano, limano. Di fronte a turisti che ogni tanto faticano a sopportare questa galleria di piccoli orrori e a volte cedono allo schifo. Perché l’odore è terribile. C’è sangue dappertutto e perfino il ghiaccio diventa rosso, una moquette che fa rabbrividire e sulla quale si affacciano polipi che sembrano piovre, calamari giganti, combinazioni mostruose di occhi che spuntano su musi da cartone animato, gonfi e pelosi, sottili e gelatinosi, fra anguille infinite, vermoni, spiedini di crudi. A giudicare quello che mangiano, si può pensare che i giapponesi siano un popolo crudele con una curiosa passione per le mostruosità e i colori forti. Enormi gamberoni rossi, tanto rossi da sembrare dipinti, catini di plastica riempiti dal nero di seppia, conchiglie grandi come due mani, meduse, o almeno così sembrano, molluschi elastici e orribilmente grossi.
Ma le balene? Dove sono le carni di balena di cui i giapponesi sono così ghiotti? E i delfini? Anche il pesce più amico dell’uomo finisce in tavola da queste parti, però qui al mercato non ce n’è traccia. Ma per gli intenditori, oltre al fogu, fanno bella mostra tonnellate di interiora, nemmeno fossimo al macello di un quartiere povero: ci sono cuore, stomaco e tutto il resto. Ed è difficile immaginare come possano essere cucinati.
Un girone infernale, con tanta acqua al posto del fuoco. Ma la stessa sensazione di trovarsi fra dannati, costretti dalla necessità a districarsi fra cadaveri, sia pure di pesci, e la necessità di maltrattarli, con un pubblico crudele di addetti ai lavori ma anche di curiosi turisti dell’orrore che vengono qui per frugare con gli occhi e poi mangiare. Fuori dai padiglioni, superato uno spiazzo affollato di macchine e camioncini, ci si avvia verso i fast food del sushi, ristoranti che ricevono il pesce appena arrivato e che di certo garantiscono una qualità assoluta. Anche alle 6 del mattino.
L’orario che per noi autorizza al massimo a bere un caffè, qui non ostacola avventurose peripezie dell’apparato gastrointestinale. Lo dimostrano le file che ci sono fuori dai ristoranti, leggermente diversi fra loro per qualità del servizio e dunque dei prezzi, ma tutti, più o meno, con le identiche proposte. Vincono sushi e sashimi, con il tonno (Maguro) che va davvero via a tonnellate: lo propongono in tre tagli, Otoro, Chutoro o Akame, e i giapponesi considerano più pregiata la parte più grassa, ossia l’Otoro, quella che noi chiamiamo ventresca. E su questo, almeno, si può essere d’accordo con loro.