La sabbia rosa è un miraggio galleggiante: appare sull’infinito azzurro del mare, di quell’azzurro che Giotto avrebbe rubato per dipingere i suoi Santi, quando il motore rallenta e dal cuore dell’atollo la barca si avvicina alla riva. Il mare scolorisce lentamente, e da blu si ingentilisce e diventa turchino, verde, celeste. E poi bianco. Finchè tra i riflessi brilla la riva e la sabbia rosa risplende sottile come una polvere sparsa per decorare, invenzione meravigliosa di chi ha disegnato questo Mandala, questo mosaico di granellini dentro l’atollo di Manihi. E’ l’Eden perfetto, senza altro da desiderare: la brezza lieve, le palme ombrose, il profumo dei frangipane, i gabbiani, i pesci, i granchi che si rincorrono, nessuno intorno. Prigionieri di un sogno, della natura che culla e protegge: si potrebbe restare anni, su questa spiaggia, a vivere di niente, si potrebbe restare un vita, novelli Robinson Crosue, a provare davvero ad esser felici. Qualcuno deve aver già fatto il tentativo, perchè qualche passo oltre la riva, superate le prime palme, ci sono i resti di una capanna, costruita con le foglie e qualche pezzo di lamiera, abbattuta dal vento e poi bruciata. Perchè anche la spiaggia rosa ha le sue asprezze.
«Ma è sempre meglio qui che nella porzione di pianeta cosiddetta civile». Renaud è cittadino del mondo, figlio di madre polinesiana e padre francese, è nato a Tahiti ma cresciuto a Parigi e dopo la scuola alberghiera ha girato le capitali d’Europa. «A Madrid mi sono innamorato e sposato, e quando è nata Tamatea, nostra figlia, mi sono chiesto quale futuro potessi offrire alla nostra bambina. New York o Roma, Bali o Sidney: ho scelto di tornare in Polinesia e tra le isole ho scelto Manihi, perchè è bella, straordinaria e selvaggia». Come la piccola Tamatea, che non ama le scarpe. In realtà, non le servono proprio. Perchè la sua casa è un giardino affacciato sull’atollo e la scuola una villetta a due passi dal porto. Ed è tra le barche che Tamatea corre e si tuffa appena è suonata la campanella e i babysquali sono già lì, ad aspettare a bocca il suo regalo. Perchè la ricreazione, nella Polinesia che è rimasta autentica, è il bagno tra i pescecani nella piscina naturale accanto al porticciolo di Manihi, perla delle Tuamotu, cuore poco conosciuto della Polinesia francese. Quaggiù è un altro mondo, dove la pinna che taglia l’acqua non mette paura, ma annuncia l’arrivo di un compagno di giochi. Tamatea ha sette anni, capelli neri e occhi azzurri, un viso che è un miracolo della creazione e un sorriso che è già irresistibile: le Barbie le tiene a casa, sigillate in un cassetto. Lei si diverte a nuotare con gli squaletti, a offrire loro qualche pezzo delle sue merende, a tirare code e schiacciare nasi come se fossero casalinghi micetti invece che scatenati predatori dell’oceano. Un quarto d’ora ed è di nuovo in classe, nella palazzina verde che serve da scuola con il campo da basket costruito direttamente sulla spiaggia.
E’ un mare di dolcezze questa porzione di Pacifico che diventa mari del sud, cantati da narratori e marinai, sognati e segnati con il dito da chiunque abbia girato almeno una volta il mappamondo o guardato una carta geografica. Perchè questa Polinesia è una collana di isolotti sottili come fogli di carta, distesi tra un arcobaleno di azzurri che divide il cielo dal mare e vestiti di ciuffi di palme, attrezzati con i rifugi per gli uragani e le antenne paraboliche, per avere un’idea di quello che succede nel mondo.
Un capriccio della creazione ha sparpagliato in mezzo al Pacifico meravigliose briciole di terra e non c’è posto al mondo che sia più desiderato, amato e rimpianto di questi sottili fili di sabbia bianca che formano le Tuamotu o delle morbide, burrose molliche verdi di Tahiti, Bora Bora e delle altre isole della Società, distese sul mare come soffici cuscini dove la vita è dolce, sonnolenta, pigra.
La civiltà degli affanni è lontana dalla risacca della laguna di Manihi ma è riuscita a spedire fin qui qualche segno dell’avvelenata società dei consumi. Per spostarsi dalla selva di bouganville e ibiscus del giardino di casa e arrivare fino al porto, poco più di un chilometro, Xavier usa il Typhoon, scooter scoppiettante, utile solo per spendere un po’ dei soldi guadagnati con la coltivazione delle perle nere, che qui crescono come i pomodori a Pachino. E all’imbarcadero spegne il motorino e accende il fuoribordo, per navigare verso settimane di solitudine famigliare, lui, la moglie e il piccolo di due anni, prigionieri di un eremo marino, una baracca di dieci metri quadrati piantata al centro della laguna e fuori dal mondo: coltivano le perle e sopravvivono, senza bagno nè televisione, ma con cassette di birra e il patè di campagna comprati al supermercato di Jean Marie, la prima bottega accanto al rifugio antiuragano.
Turipaoa è un villaggio felice, è la capitale di questo mondo fuori dal mondo, dove l’anziana Tahina lotta con la vergogna per resistere alla tentazione di ridere. Finchè lascia che la pelle del viso si tenda come i fili delle canne da pesca, lascia che le labbra diventino sottili e lunghe come il becco del pesce trombetta. Ma poi cede, la vecchia Tahina, settant’anni ricamati dal sole che le ha scolpito di rughe la fronte e le guance: e quando l’allegria la travolge, quando abbandona il pudore che le serrava la bocca e si apre al sorriso, nel deserto delle gengive brilla l’unico dente, il monumento ai caduti, il suo orgoglio e la sua vergogna. Perchè a Manihi non c’è ancora il dentista, un lusso esagerato per questi quattrocento abitanti sperduti nel Pacifico.
Ma non c’è famiglia che soffra in questo atollo che è ricco di perle nere e di dollari, perchè questa stravaganza della natura ha fatto arricchire molti: «Solo che quando ero giovane era tutto diverso – ricorda Tahina – Allora i miei fratelli andavano in fondo al mare per raccogliere le perle: ora sono le ostriche che vengono su». Le fecondano in provetta, con una specie di inseminazione artificiale dal risultato quasi garantito, poi le lasciano maturare in mare, ben assicurate alle corde che tirano su quando è tempo del raccolto.
Il mondo cambia anche quaggiù, ma quaggiù non cambia niente. Sono ancora le grandi conchiglie strappate ai fondali ad annunciare che sulla banchina del porto sta per cominciare l’asta per il pesce. E sono i pahu, i tamburi scavati nei tronchi di cocco e ricoperti con pelle di squalo, a dare il via alle danze, affidati alla maestria di suonatori abilissimi che li accarezzano con dita di velluto, per dar voce alle più lievi sfumature, e poi colpiscono con l’energia ciclopica di bicipiti ornati di tatuaggi, per scatenare ritmo e frenesia. Perchè il tamurè, la danza degli atolli e delle isole merlate dai monti, è cerimonia religiosa e allusione erotica, provocazione e corteggiamento. Ogni movimento ha un significato preciso: e se il braccio sinistro che disegna un cerchio passando sopra la testa vuole rappresentare l’arcobaleno, se le braccia che si flettono verso il torace e si distendono subito dopo mimano la forza del vento, il bacino che ondeggia, rotea, frulla, salta, non lascia molto spazio all’immaginazione e serve per accendere desiderio e fantasia erotica. Mareva è una delle star del tamurè, è giovane e bella, con gli occhi da gazzella e gli zigomi che sono un balcone affacciato sulle guance. Sogna un abito da sera, un vestito lungo che le fasci il corpo, per nascondere almeno un pò della bellezza che deve esibire, vorrebbe scarpe con tacchi altissimi per passeggiare su pavimenti preziosi, su marmi e parquet, invece di affondare nella sabbia. Ma è tra le palme che deve scatenare la passione di chi la guarda, con una mini di paglia e due conchiglie che imprigionano il seno. Per sbalordire, sfodera in camerino l’arma segreta offerta dalla natura: lentamente, lascia correre la mano su tutto il corpo, per avvolgerlo con le trasparenze seducenti dell’olio di cocco. Finchè è pronta per la ribalta.
La luce le infiamma la pelle, che cattura gli sguardi e i pensieri, il rullo del pahu diventa assordante, cresce, rimbomba, esplode. E tace, quando di Mareva resta soltanto una traccia dolce di profumo di tiarè mentre le onde del mare affidano alle chitarre i loro racconti, per narrare le gesta dei fieri antenati, dei pionieri che conquistarono gli Oceani, secoli e secoli fa. Quando la spiaggia rosa era com’è ancora oggi, come sarà per lungo tempo ancora, finchè l’uomo vorrà rispettarla.