Venne fuori da quelle stanze segrete dopo quasi un’ora di attesa. Apparve in braccio a una delle donne che dovevano prendersi cura di lei. Faceva impressione, la piccola Kumari. Una dea bambina imprigionata dalla storia e dalla tradizione, più ancora che dalla fede dei nepalesi. Facevano impressione quegli occhi truccati, così carichi di nero, e quell’espressione triste, di chi non capisce cosa le sta capitando, perché è prigioniera in quella casa e fuori di li, quando esce per le processioni, non può nemmeno camminare, perché la regola prevede che la Kumari non tocchi terra impura.
La crudeltà della fede ruba l’infanzia a una bambina considerata incarnazione di una potentissima divinità, Taleju, capace, così si crede, di decidere e modificare il destino delle persone e degli stati. Ma intanto a essere profondamente cambiata è la sua vita, diventata un inferno.
Kumari letteralmente significa <vergine>. Un onore e un pericolo, orgoglio e tormento che si conquistano dopo aver superato più di 300 prove, alcune delle quali assurde e severe mentre altre lasciano ampi margini interpretativi. Gli occhi devono essere <neri azzurrognoli>, la bocca <piccola e umida>, le cosce <simili a quelle di una cerva>, <ciglia come quelle di una mucca>, <corpo come un albero di banano>. Le candidate, tutte scelte dalle classi alte, vengono rinchiuse una per volta nella sala del dio Agan, una camera completamente buia, e per tre ore non devono piangere né mostrare segni di inquietudine anche se dovranno passare una notte fra teste di capre e di bufali sacrificati in onore della dea Kalì, con uomini mascherati da demoni a spaventarle. Pochissime restano impassibili: tra loro ne viene scelta una. I più contenti, in genere, sono i genitori. Raccontò Lukmani, madre di Sajani Sakya che a 3 anni diventò Kumari: <Per noi è un onore che nostra figlia sia stata scelta, anche se sappiamo che questo comporta molte costrizioni per lei>.
La Kumari non può toccare terra all’esterno della sua residenza, una specie di sacra reggia, e quando esce è sempre portata in braccio, non deve parlare, perché la parola alimenta l’illusione, non deve mangiare alcuni alimenti considerati impuri, come il pollo, e soprattutto non deve ferirsi. Se perde anche una sola goccia di sangue viene considerata impura e dunque, ripudiata. Ecco perché la Kumari torna alla sua vita normale quando arriva la prima mestruazione: scompare la purezza e la dea Taleju non può più vivere in lei.
Il passaggio dalla vita da divinità a quella da bambina qualunque può sembrare una liberazione, ma rischia di diventare una nuova prigione. La piccola può finalmente correre, parlare, ridere, giocare, rinunciare a quel trucco pesante che la trasforma in una maschera, con gli occhi dipinti di nero, la fronte coperta da tinture rosso carminio. Potrà mangiare quello che vuole, anche se dovrà rinunciare a quei poteri che le consentivano di segnare la fronte dei fedeli con il <tika>, un punto rosso fatto con un miscuglio di riso, colore e yogurt. Dovrà però trovare un marito. E non è affatto facile: la leggenda, infatti, vuole che l’uomo che sposerà una ex Kumari morirà dopo poco tempo. Ma la Kumari bimba che si affaccia alla finestra non sa niente di tutto questo. Truccata da dea, resta pur sempre una bambina.
Ci fu un lungo corteggiamento, fatto a una delle sue assistenti, per riuscire a far affacciare la bimba-dea. Il palazzo della Kumari è nel centro di Kathmandu, a Durbar square: si arriva attraversando quella che viene chiamata Basantapur, la piazza degli elefanti. Si entra nel cortile e oltre non si può andare. Capita che qualcuno si affacci, ma si può anche rimanere ignorati per ore. A me andò bene. Sarà perché tossivo, proprio per dare un segno di presenza, sarà perché sono stato semplicemente fortunato, ma dalla finestra proprio di fronte all’ingresso sbucò il volto di una donna. Feci ampi gesti con le braccia per richiamare la sua attenzione, rimanendo però sempre in assoluto silenzio. Lei mi guardò e io sillabai muto <Kumari>. Come in un prevedibile copione, lei fece no con la testa e le mani e io replicai come lei si aspettava, facendo cioè il segno universale del denaro, sfregando il pollice contro indice e medio.
L’esperanto dell’avidità, oltre che della bonaria corruzione, funziona ovunque. E lei, evidentemente, capì. Mi fece un altro gesto, con la mano aperta e più volte mossa verso il basso, come a dire <Aspetta>.
Aspettai. A lungo. Finchè la vidi sbucare dal buio. Era in braccio a un’assistente, infagottata in abiti pesanti, scuri, che la rendevano goffa. Il volto, che apparve appena nella penombra della camera dalla quale si affacciava, sembrava dipinto più che truccato. Nessun sorriso. Nessun gesto. Non c’era nulla, in quella minuscola figura, che regalasse non dico allegria, ma neppure serenità. Anzi, trasparivano angoscia, sofferenza, dolore. Sorrideva, invece, la donna che la teneva in braccio, la custode del destino di una bambina che in quel momento pensai davvero di poter considerare sfortunata. E non è certo un caso se in più di una sede èstato affermato che <il trattamento riservato alle Kumari viola i diritti sanciti dalla Convenzione internazionale dei diritti dell’infanzia>.
Ma nemmeno i maoisti che in Nepal hanno conquistato il potere nel 2008, dopo 238 anni di regno sono riusciti a cambiare le cose. Forse non ci hanno nemmeno provato, forse non hanno neppure pensato di rinunciare alla presenza rassicurante delle Kumari. E tanto meno ora, dopo l’infernale terremoto che ha distrutto templi, case, portato via migliaia di vite. Di Kumari ce ne sono più di una, nelle città e nelle valli del Nepal, ma quella che risiede nel palazzo di Kathmandu è la più importante, ed era lei a imporre la tika, il punto rosso in mezzo alla fronte, sul re, legittimandone il governo per un anno. Non c’è più il re ma la Kumari resta. A proteggere il suo Nepal.