Giunge fin qui l’eco delle esecuzioni in Arabia Saudita, della morte dell’imam sciita e della tensione infinta con l’Iran. Ma arriva l’eco, appunto. Attutito, smorzato, soffice. Quasi spento. E non te lo aspetteresti nemmeno, a pochi chilometri dalla costa thailandese e da Krabi che è la terza città del paese. Koh Lanta è lontana un braccio di mare, ma la distanza sembra infinita. Lì, in quel profondo blu, c’è anche un ricordo che mi appartiene: un paio di occhiali, volati via mentre in barca stavo raggiungendo l’eremo felice di questi giorni, il Pimalai, un resort dall’eleganza ricercata – sobria direbbero Maio Monti e i suoi lacchè, per questo non lo dico io – e mai volgarmente scintillante, dall’architettura felice, anche se inevitabilmente punteggiata di scale, da richiami all’Oriente che regala serenità all’animo. Oltre che alla pancia: la cucina è un concerto di curry e spezie, non ti stancheresti mai.
Posto incredibile, aldilà di ogni aspettativa. Perché anche il mare è più bello di quel che ti aspetti da un posto dove la spiaggia è dorata, bellissima a vedersi, ma inevitabilmente con riflessi meno brillanti della sabbia bianca. E invece la baia del Pimalai è davvero bella.
E in spiaggia, 50, 70 metri di distesa d’oro prima di arrivare al mare, si sente il cinguettio degli uccelli, le voci sono un sussurro, arriva la brezza dal mare e la carezza sonora di quelle piccole onde che si rovesciano, come una carezza, appunto, sul bagnasciuga.
Si sta bene. Con Koh Ha all’orizzonte, cornice naturale del sole che tramonta, un dente di roccia e sabbia che spunta così, per caso, nel mar delle Andamane.
Più a sud c’è Koh Rok, altro splendore, questo di sabbia candida, a ovest, verso Phuket, il fascino irresistibile di Phi Phi. Venire a vedere per credere, una Thailandia ancora migliore di quel che si immagina. A Koh Lanta, l’isola del Pimalai.