Mio cugino si chiamava Rugabo. E Rughendo era suo fratello. Ci siamo conosciuti per caso, nella foresta pluviale del Congo, quando ancora si chiamava Zaire. Ho camminato nove ore per incontrare Rugabo, un po’ meno per raggiungere Rughendo. Non siamo diventati, amici, non ci siamo abbracciati e neppure salutati. Ma Rugabo, soprattutto, ha capito che a volte gli uomini sono più stupidi dei gorilla. E’ successo questo. Insieme ad altre sei persone, e scortato da due rangers armati di un fucile che se avesse dovuto sparare sarebbe esploso, ci siamo incamminati seguendo le tracce lasciate nella foresta dalla famiglia di Rugabo, gorilla di montagna di stupefacente bellezza. E di incredibile intelligenza.
Cammina, cammina, fai attenzione alle feroci formiche rosse, arrampica, supera tronchi, scivola nel fango, suda. Finchè il ranger vede una piazza in mezzo alla foresta, una specie di accampamento senza tende: hanno dormito qui, non saranno lontani. Cammina, cammina, fai attenzione alle feroci formiche rosse, arrampica, supera tronchi, scivola nel fango, suda. Finchè il ranger si accorge che le fronde di un albero oscillano e che un bambù poco lontano è sbattuto come un ventaglio. Aggrappato a quelle canne c’è un piccolo gorilla di montagna. Siamo arrivati, la famiglia è qui intorno. Ci sediamo, mentre il ranger studia la situazione. Il terreno in alcuni tratti è fanghiglia, deve esser piovuto e l’umidità è molto forte. Rugabo è proprio in mezzo a una serie di pozzanghere, sta divorando quintali di bambù di cui i gorilla sono ghiotti. Ci sistemiamo a distanza di sicurezza, seguendo gli ordini, più che i suggerimenti, dei rangers: non guardarlo negli occhi, restare in una posizione più in basso rispetto a lui, fare silenzio. E’ il capofamiglia, un enorme Silverback di oltre 200 chili, ha una forza notevole, se si infastidisce può diventare pericoloso. E infatti noi stiamo immobili e zitti, incantati da quel che vediamo.
I minuti passano, Rugabo è indaffarato col cibo, ci ha visti ma non sembra proprio curarsi di noi. Ogni tanto, mentre mastica il bambù, fa un gemito, un verso di piacere, esattamente come facciamo noi quando mangiamo qualcosa che apprezziamo molto. Stiamo più tranquilli anche noi, ora. Tanto che io azzardo un lieve movimento. Guardo il ranger e gli chiedo con lo sguardo se posso spostarmi per fare meglio una foto. Annuisce, vado. Solo che il terreno è scivoloso, il fango non tiene l’appoggio del piede e io cado, rotolo sulla melma fino a meno di un metro da lui, da Rugabo. Sento il rumore metallico del fucile: il ranger ha messo il colpo in canna. Un attimo lunghissimo, decimi di secondo che sembrano eterni, nei quali penso a quel che potrà accadere: certo, non posso spiegare al gorilla che sono scivolato e che non volevo mancargli di rispetto o infastidirlo avvicinandomi troppo a lui. Ma Rugabo lo capisce da solo.
Sto lì, impietrito e sporco, prigioniero della mia paura e del fango. Lui non si scompone affatto, continua a divorare il bambù. Ma mi guarda, questo sì, e non colgo un sorriso, ma forse intravedo una smorfia di umana considerazione, come se davvero avesse capito quel che è appena successo e senza poterlo dire stesse pensando quel che avremmo pensato noi: “Ma guarda sto cretino….”.
Un minuto, forse qualcosa meno, e cerco di muovermi lentamente per rimettermi in piedi. Ma non è facile, perché si scivola dannatamente. Alla fine ci riesco e carponi, piegato sulle ginocchia per rimanere in una posizione di sottomissione, arretro senza mai dargli le spalle. Raggiungo ranger e compagni di avventura. Ormai sono fuori pericolo e il tempo dell’incontro sta per finire: se la presenza umana dura troppo i gorilla si infastidiscono. Siamo ai saluti e di nuovo i nostri sguardi si incontrano, come non dovrebbe accadere. E ancora una volta Rugabo mi guarda con un’espressione più umana che da gorilla, e di nuovo mi sembra faccia qualcosa di simile a quel nostro cenno col capo, quando alziamo un po’ il mento per salutare qualcuno in modo un po’ rude e silenzioso. Faccio lo stesso anch’io, e chissà cosa avrà pensato. Me ne sono andato così, convinto di aver incontrato mio cugino.
Poi sono passati gli anni, la crisi, la guerra fra Tutsi e Hutu, i massacri, la fame. Rugabo e Rughendo sono rimasti nella loro foresta, finchè anche lì sono arrivati gli uomini con i mitra e i machete. E li hanno uccisi, con le loro famiglie. Per mangiarli e vendere le mani come portacenere. Arrivò un’Ansa mentre ero in redazione, a raccontare la loro fine. Mi scesero le lacrime, avevo perso i miei cugini.