Francis è un buon cristiano. Da quasi cinquant’anni, quando ha deciso di convertirsi alla parola del Dio dei bianchi e riscattarsi dal suo peccato originale. Perché Francis è stato un buon cannibale: nel senso che seguiva correttamente la tradizione familiare e bolliva nel pentolone i corpi dei nemici prima di convocare tutta la tribù per il più atteso dei «dinner party». Usava così in Papua Nuova Guinea, nella giungla ancora intatta appena a sud dell’Equatore. Adesso le tradizioni gastronomiche si sono evolute ma Francis, padre di una cinquantina di ragazzi che lo hanno già reso nonno, risponde volentieri alle domande dei nipotini: «Che sapore ha la carne umana?». Dice che ricorda il gusto del maiale, anche se è un po’ più insipida. Poi sorride toccandosi i lombi: <Delicious>. Storie d’altri tempi, Ma Francis è una testimonianza vivente di quello che poche decine di anni fa accadeva ancora in questa terra che sembra creata apposta per custodire riti e magie, tradizioni e costumi trasmessi fino a noi direttamente dall’età della pietra. Lungo il Karawari, nel bacino fluviale del Sepik, uno dei più imponenti del mondo, vivono gli Auwin: sono minuti, camminano curvi, non amano la luce del sole. Da appena tre anni sono usciti dalle caverne, per insistenze sempre più pressanti del governo di Port Moresby che non voleva annoverare, tra i già numerosi tristi primati del Paese, anche quello di avere l’ultimo nucleo di cavernicoli. Adesso la tribù è accampata sulle rive del fiume, venera lo spirito dell’Acqua e a lui dedica suggestivi Sing-Sing, cerimonie mistiche ritmate da melodie di flauti ricavati da canne di bambù. Le donne possono ascoltare ma non guardare gli uomini che suonano.
SPIRITISMO E MAGIA Quella musica, per loro, deve restare una magia, un’armonia che arriva direttamente dalle acque del fiume. Magia e spiritismo. Che sconvolgono ancora la vita degli uomini del Duemila. Jai, una ragazzina di 12 anni, scompare improvvisamente una mattina: stava andando con la canoa in un villaggio vicino. La cercano per ore. La trovano sulla riva del fiume senza ferite, ma con la testa rivoltata, la faccia dalla parte della schiena. Quando i genitori si accorgono che è morta vedono anche la sua canoa: senza più nessuno a bordo, risale il Karawari controcorrente. Per gli antichi codici rituali è la maledizione dello spirito della Foresta; per gli uomini bianchi che hanno portato civiltà e religione è un omicidio da denunciare alla polizia. E infatti vanno tutti al commissariato di Amboin. La risposta degli agenti è agghiacciante: «Non indaghiamo sui delitti degli spiriti». Paura? Bernie Luck è un australiano che dirige un albergo in mezzo alla giungla e lavora con gli aborigeni da vent’anni. Tiene la Bibbia nel cassetto e un sacchetto nell’armadio. Dentro c’è un serpente di legno che ha per occhi due conchiglie di fiume: ha quasi un secolo ed è stato testimone (o protagonista?) di straordinarie guarigioni. «In Occidente li chiamano selvaggi: io ho imparato a rispettarli e ho cercato di capire la loro vita. Ora so che la verità non è tutta dalla nostra parte». Quelle che noi consideriamo atrocità sono per loro prove di coraggio. Lawrence ha 22 anni, una moglie e due figli. Avrebbe potuto evitare il crudele rito dell’iniziazione che costa parecchi soldi e scatena una terribile sofferenza. Invece ha deciso di affrontarlo: «Volevo guardare dentro di me, restare solo di fronte al mio spirito guida». Così il giorno che compie 16 anni lo svegliano alle 6 e lo portano nella «haustambaran», la casa degli spiriti, un luogo sacro riservato soltanto ai maschi. Si celebra un Sing-Sing in suo onore, si suonano i flauti magici, capaci di alleviare il dolore e far venire gli spiriti.
LA FEROCIA DELLE GUERRE Lawrence è disteso al centro dell’enorme palafitta con intorno tutti i guerrieri del villaggio. Il Big-man, il capo, dà il via al rito. E nella schiena di Lawrence finiscono una sessantina di coltelli, lance, aghi: quando le cicatrici saranno chiuse avrà la «schiena di coccodrillo», segno di grande coraggio. «Soltanto così si è uomini veri — dice Lawrence — guerrieri pronti a combattere per la propria tribù». Guerrieri: non è soltanto una dichiarazione di principio, qui la guerra si fa sul serio. Più di una alla settimana, in un territorio grande una volta e mezzo l’Italia e popolato da tre milioni di persone divise in 769 tribù che parlano 769 lingue diverse. Si combatte per un maiale ucciso, per una donna amata e non sposata, per un confine non rispettato. E si combatte con ferocia, distruggendo villaggi con il fuoco e uccidendo con frecce, lance e pistole fatte in casa. L’ultima guerra è scoppiata a Minj, pochi chilometri da Mount Hagèn, la terza città del Paese. Duemila Konumbuka contro tremila Kondika, nove morti in un mese di battaglia. Si affrontano nelle valli e sulle colline, a qualche miglio dal posto di polizia di Minj, presidiato da 24 agenti che hanno a disposizione tre jeep, un paio di auto e un centinaio di armi automatiche. Non provano nemmeno a intervenire: «Cosa possiamo fare in 24 contro 5 mila?» dice il comandante. E applica la strategia consigliata dal ministero: bruciare le case di chi combatte. Impegnati nella costruzione di nuove abitazioni per genitori, moglie e figli, i guerrieri non avranno più tempo da dedicare alla battaglia.È dura la vita dove vola l’uccello del Paradiso. Un Paese in bilico tra l’alba dell’uomo e la civiltà tecnologica. «Vorrei che le molteplici e varie tradizioni di Papua Nuova Guinea possano ancora resistere in questi tempi moderni» dice il primo ministro, Philip Kapal. Papua conserva le battaglie tribali e conosce gli esordi di un terrorismo che con bombe rudimentali ha già ucciso decine di persone nelle strade di Boungainville, un’isola che geograficamente appartiene alle Salomone e reclama l’indipendenza. Gli indigeni vestono con i gonnellini di paglia, si «truccano» colorando la faccia con la terra e ornando i capelli con le piume degli uccelli ma per raggiungere il centro commerciale dai villaggi di montagna prendono l’elicottero di James Daly, pilota australiano. È cominciata l’avventura turistica, grazie ai capitali australiani portati da un pioniere, Bob Hates, che è penetrato nella giungla, ha fatto amicizia con le tribù e adesso accompagna gli stranieri nei villaggi e dentro le «haustambaran». Chi arriva dall’Occidente rischia di stupirsi, e di non capire nulla se usa le nostre categorie mentali. Un esempio. Il sogno di Lawrence, che conosce l’inglese e ama il rock, è vecchio di migliaia di anni. Lui che ha scelto la sofferenza per avvicinarsi al suo dio vuole diventare Big-man e guidare la sua tribù. I missionari gli hanno parlato di Cristo, ma non l’hanno convinto del tutto. E sotto il pilone centrale della sua capanna, come vuole la tradizione, c’è ancora il teschio di un nemico: uno dei sei uomini messi in pentola da Francis. |