Il dio del vento si innamorò della femmina di un drago. La inseguiva nella giungla e lungo i fiumi, con il suo soffio gentile la riscaldava se aveva freddo e la rinfrescava quando sentiva caldo. La corteggiò a lungo, finchè anche lei venne travolta dalla passione e dal loro amore nacque Ari, la prima Donna Giraffa. La leggenda racconta la tempesta che annunciò il parto e poi l’arrivo della piccola, avvolta nelle foglie di banana e con i cerchi di ottone al collo. Coraggiosa fin da bambina, così simile alla madre, tenera e feroce. La stirpe cominciò così: da allora, per somigliare alle femmine dei draghi, le donne Paduang decisero di ornare il collo e di sistemare tra volto e torace un’infinita sinfonia di cerchi di ottone, inseguendo un canone di bellezza che costringe ad aggiungere ogni anno un nuovo anello, in una gara contro l’impossibile che spinge la testa fra le nuvole e trasforma le ragazze in Donne Giraffe.
RIBELLIONE Mahia non ne può più e ha scelto la ribellione. Anche perchè lei è figlia di un’altra leggenda: «Sono nata in una notte di luna piena e fu per questo che la mia tribù decise di mettermi al collo gli anelli di ottone. Mi dissero che la luna aveva scelto di farmi arrivare sulla terra in un giorno fortunato e che quell’anello sarebbe stato il mio segno di distinzione e di augurio. Ma rispettare la tradizione non mi è servito a molto». Mahia è scappata dalla Birmania, dove una feroce giunta militare affronta a colpi di mitra i problemi delle minoranze: insieme alla tribù ha oltrepassato i confini thailandesi e ora vive in un minuscolo villaggio afflitto dalla malaria e affacciato sul fiume Pai, poco lontano da Mae Hong Son, capitale della terra thailandese chiamata Shangri Là, l’ultimo paradiso.
In un ventunesimo secolo che sembra così lontano da loro, Mahia e le altre affrontano le loro giornate con venti e più cerchi di ottone, pesanti un paio di etti ciascuno. Gesti quotidiani diventano faticosi con quel collo lungo anche due o tre volte più del normale, perfino dormire o alzarsi da terra può trasformarsi in un problema. Fare sforzi, portare pesi, affannarsi è un rischio che può anche farle morire: perchè al contrario di quello che sembra, non è il collo a crescere, ma il torace ad abbassarsi, costringendo i polmoni e rendendo difficile la respirazione.
IL VENTO E IL DRAGO Ormai sono lontani i tempi dell’amore tra il dio del vento e la femmina di un drago. Talmente lontani che anche la tradizione sta rischiando di scomparire. Perchè le Paduang hanno conosciuto altri villaggi, dove femmine come loro si muovono con facilità, senza quell’ingessatura lucida intorno al collo. Così hanno visto che si può vivere in un altro modo e hanno scoperto la vergogna. E Mahia è diventata una ribelle. Non sa leggere, non sa scrivere, ma sente che la sua vita è stata troppo diversa da quella delle donne che ogni tanto incontra a Mae Hong Son o nei mercati sperduti nella giungla. Per sè non può più fare niente: «Gli anelli li terrò fino alla morte, ormai sono abituata».
Ha 28 anni e ha rispettato la regola canonica di aggiungerne uno all’anno: il primo, come vuole la tradizione, lo ha messo a sei anni e ora ha 22 cerchi d’ottone. E’ in media per battere il record delle donne Paduang, 31 anelli infilati tra la testa e le spalle: ha ancora un po’ di spazio e forse ce la farà. Contenta? «Non mi interessa, ma sarei contenta per la tribù».
ANELLI E BETEL Rassegnata per sè, è ribelle per Mula, la figlia di 9 anni. Bella, con gli occhi scuri che incantano e sembrano esplodere dalle fessure che le tagliano il viso. Selvaggia, vestita quasi di niente, gioca a imitare i grandi del villaggio che devono liberarsi della saliva che invade la bocca quando masticano il betel, una specie di droga vegetale per poveri. Mula sputa in continuazione, e si diverte. «Ma no – giura Mahia – mia figlia non porterà gli anelli».
E’ dura la vita lungo il fiume Pai. Mahia ha deciso che il domani di sua figlia deve essere diverso e quello che mostra sempre, perchè chi parla con lei possa capire, è appeso alla parete della palafitta. Ben incorniciata, c’è la foto di Mula con la cartella, la blusa bianca e la gonna blu. Questa figlia che studia sarà il suo riscatto da una vita che soltanto ora ha scoperto troppo severa e faticosa. Il suo orgoglio saranno non più gli anelli al collo, ma i libri che Mula saprà leggere e le frasi che saprà scrivere.
I CAPILLARI SONO ROTTI Mahia stende un braccio, indica un punto vicino al gomito e un altro sulla gamba destra: i capillari sono tutti rotti, strozzati dagli anelli. Si stende per terra, in quella che deve essere la stanza da letto e mostra il ceppo che usa come cuscino: con il collo combinato così non può dormire a pancia sotto, riesce soltanto a piegare la testa da una parte o dall’altra. Neppure per lavarsi si toglie l’armatura: e infatti usa piccole spugne con cui fa filtrare l’acqua fin sulla pelle. E’ stanca, ma felice per Mula che crescerà senza anelli: non sarà più la figlia del dio del vento e della femmina del drago, ma saprà spiegare al mondo perchè le Paduang non vogliono più essere donne giraffa.
CONSUMO E PROFITTO Silenziosa e invisibile, è su queste montagne, dal fiume Pai al Triangolo d’oro, fin verso il confine con il Laos, che si combatte la battaglia tra antichissime tradizioni tribali e la civiltà del modernariato, figlia del consumo e del profitto. Come i Paduang, anche Lao, Meo, Yao, Akha, Lisu vivono in palafitte aggrappate alle alture: a lungo hanno coltivato l’oppio, molti hanno smesso grazie alle sovvenzioni del governo thailandese che incoraggia una riconversione delle colture, qualcuno continua ad avere un orticello di papaveri, magari per uso familiare. Indossano ancora gli abiti degli avi, con i colori delle tribù, blu, bianco, nero, le nappe rosse, i monili d’argento: poveri ma fieri, sono gente abituata alla sofferenza, ma nessuno di loro ha mai smarrito la gioia di vivere e fra le tradizioni che curano con maggiore soddisfazione c’è proprio quella di fare baldoria. Gli Akha, soprattutto, che segnano l’ingresso ai loro villaggi con la Porta degli Spiriti, una piccola architrave di legno ornata da sculture di ogni tipo, belve, uccelli, elicotteri, ma soprattutto dalle figure un po’ rozze e a grandezza quasi naturale di un uomo e una donna pronti, anzi, prontissimi, a fare l’amore: lei a gambe divaricate, lui in posa da homo eroticus. Perchè è proprio questo uno dei passatempi preferiti dalla tribù, con fidanzamenti che durano una notte, ospiti a sorpresa, partecipazioni straordinarie.
GLI AKKHA E LA LIBERTA’ Gli Akha vivono liberi, con una forte propensione alle relazioni sessuali. «Nessun costo e tanto divertimento» spiega con semplicità Presha, uno dei capi della tribù che vive vicino Mae Sa, nel cuore del Triangolo d’Oro. I bambini crescono come se fossero figli di tutti, allevati dalla comunità che quasi sempre, ormai, dispone anche di una scuola, dove arrivano le insegnanti mandate dal governo di Bangkok. Imparano un alfabeto che non è il loro, la geografia di un mondo che non immaginano neppure, ma la sera, intorno al falò, nelle palafitte dove si preparano polpette con carne di pollo, maiale e cane, i piccoli Akha imparano anche i segreti della Porta degli Spiriti: «Nella nostra lingua si chiama Law-kah – racconta Presha – La tradizione ordina di rifarla ogni anno e prima che inizi la costruzione lo sciamano prende zuppa di riso, il whisky che facciamo noi con il grano, succo di zenzero e acqua fresca, versa tutto in una tazza di bambù, mescola uova e riso e lo offre agli spiriti degli antenati. Soltanto allora si comincia a intagliare il legno».
SHANGRI LA’, UN’ILLUSIONE Memorie di un tempo che se ne sta andando, frammenti di vite che stanno cambiando e sono già considerate un classico degno di rappresentazione, come una tragedia greca. Quello che accadeva, ma accade ancora in alcuni villaggi tra il Pai e il Mekong o sul paradiso dello Shangri Là, va in scena in un teatro di Chang Mai per offrire al mondo la storia ancora autentica delle tribù. Attori e ballerini interpretano loro stessi, impegnati di giorno tra valli e sentieri, di sera a calcare le scene del teatro Kantoke, dove seduti in terra e poggiati ai tradizionali cuscini triangolari, gli spettatori gustano ricette antiche di migliaia di anni. Sul palcoscenico sfilano famiglie di Lisu, i pavoni delle colline, fanatici e felici di farsi ammirare con i loro abiti sgargianti, i più belli degli altipiani, i Lao, che affrontano il matrimonio come una tragedia perchè ai giovani maschi, appassionati degli harem, ogni sposa costa oltre mille bath, una fortuna, e poi i Meo, convinti di avere tre anime: la prima destinata a raggiungere nell’aldilà gli spiriti degli eletti, la seconda che rimarrà nel sepolcro insieme con il corpo del defunto, la terza che si reincarnerà in un altro essere vivente. Non compaiono, invece, le donne giraffa, che non scendono dalle loro colline. Mahia e Mula restano nella loro palafitta, la madre con gli anelli al collo, la figlia senza: divise dalla tradizione, unite dalla speranza.
TRATTO DAL LIBRO “LA MIA ASIA” DI CORRADO RUGGERI, LT EDITORE