Dura un paio di giorni. Un dolore sordo, un tormento che si agita fra lo stomaco e il cuore. Viene e se ne va con l’odore di marcio che ti si attacca addosso quando vaghi nel nulla disperato di questa discarica infernale che per i ragazzini invisibili di Phnom Penh è insieme casa e lavoro. Qui cercano di guadagnare qualche soldo e qui vivono, mangiano e imparano a farsi rispettare. Si diventa grandi da piccoli fra i rifiuti. Quando le bottiglie di birra si trasformano in qualche centesimo – 5 vuoti valgono il prezzo di una caramella – e ce ne vogliono tante per mettere insieme i soldi per un pasto, quando si impara a lavorare in squadra perché se fai a botte con un altro per una bottiglia di birra vuota c’è subito un altro ragazzino che ti porta via tutto quello che avevi raccolto. La comunità non è una scelta ma una necessità su queste montagne di immondizia. Aiuta nel lavoro, e fa sentire meno soli. Ma qualche volta il gruppo diventa banda, e allora forse è anche peggio che restare da soli.
Questo è un deserto di rifiuti, un orrore di colline formate da tutto quello che la capitale cambogiana decide di non utilizzare. Quello che arriva da alberghi e case e ristoranti e resiste al primo assalto, sul viale sterrato che porta alle montagnole della discarica.
Scene da selvaggio sud del mondo, alla periferia di Phnom Penh. Da qualche tempo questa è diventata destinazione di un turismo cosiddetto responsabile, che dovrebbe servire ad aiutare chi soffre. Ma anche una medaglietta da attaccare alla collezione di orrori visitati qua e là fra i continenti, quei posti che di umano non hanno più niente.
Non si immagina che un camion di immondizia possa essere letteralmente assaltato da una dozzina di ragazzini che scientificamente lo aspettano e ci saltano sopra appena oltrepassa una specie di frontiera non segnalata, dove la legge scompare e valgono solo coraggio e organizzazione. Perché chi sale per primo sul cassone sceglie i rifiuti migliori, facili da recuperare e da rivendere subito, e li lancia alla squadra di raccoglitori, pronta a prenderli e smistarli. Poi il camion prosegue il suo viaggio, verso la cima di questa montagna.
Ci sono salito anch’io sul camion, ma nella cabina di guida. E ho messo prima un piede e poi mi sono seduto dove non avrei dovuto, su un sacco che sembrava solido, sistemato al posto del sedile che non c’era più, quasi a sostituirlo. Sembrava quasi integro, sigillato dentro una iuta bianca con scritte incomprensibili in cambogiano. Era pieno di chissà cosa e mi sono fidato: ma sotto il mio peso ha ceduto ed è esploso. Pochi secondi, e un interminabile esercito di minuscoli vermi bianchi è uscito e ha invaso la cabina, passando sulle mie gambe, poi sulle braccia e da lì su quelle dell’autista. Che rideva, sereno, come se non stesse succedendo niente. <No problem, no problem>. E mi ha spiegato, in qualche modo, che dentro quel sacco c’era mangime per maiali.
Il benvenuto nel girone dei giovani dannati è stato questo. Col caldo intorno, l’odore di marcio che veniva da fuori e si mescolava con la puzza di quell’abitacolo sporco e distrutto, dove non un comando funzionava, dove i sedili non c’erano più, quasi fosse un mezzo militare che batteva in ritirata dopo essere stato colpito da un carro armato.
Fa paura questo posto, un arcobaleno di frammenti di colore perché ci sono scatole, etichette, stracci, scarpe, avanzi di cibo, spesso utilizzati subito per un pasto o accantonati per la cena, e ancora plastiche, vetri, mattoni, pezzi di legno, tutto insieme, ammucchiato in un indistinto che il vento, il sole e la pioggia mescolano come capita, formando e scomponendo dune sciolte dal caldo e spostate dall’acqua. Una poltiglia di dolore, dove chi capita, resta prigioniero. Come la famiglia accampata dopo il primo tornante, una baracca che serve a regalare un po’ d’ombra a genitori e figli. I ragazzini fanno i cercatori di rifiuti, mamma e papà vanno a venderli. Inconcepibile per noi poter vivere qui come fanno loro, cucinare su un fornelletto a gas, dormire su questa minuscola palafitta a venti centimetri da terra, in modo che l’acqua delle piogge possa scorrere senza bagnarli, ammesso che il tetto, in caso di temporale, riesca a ripararli. Ma è l’odore, soprattutto, a essere insopportabile, è questa tromba d’aria mefitica che non si vede ma si sente e invade corpo e anima, naso e cuore, che una volta a contatto della pelle non la lascia più, si insinua come una colpa dentro il cervello e martella e ripete che è anche una responsabilità nostra se qualcuno fa finta di vivere, condannato a stare sulla terra in questo modo. Qualsiasi sia l’ultraterreno, perfino l’inferno è meglio di qui. E se l’aldilà non c’è, anche l’angoscia del nulla è preferibile.
Ma l’uomo che non si arrende diventa straordinario perché sa adattarsi. Anche qui, dove in cima alla collina più alta, in vetta al cumulo più straripante di rifiuti, spunta il bar della discarica, quasi un oltraggio alla sofferenza, quasi un miraggio della follia. Eppure è vero. Ci sono spremuta d’arancia e coca cola. Venduti a chi non può, e dunque a prezzi vantaggiosi. E vengono qui a dissetarsi, più dei bambini bevono gli autisti dei camion, e si vedono anche ragazzine, pure loro sorridenti, ma all’occorrenza feroci e rissose come i maschietti. E viene da chiedersi che donne diventeranno, con quali sentimenti cresceranno, se saranno spietate o sapranno riconoscere e interpretare l’amore, almeno quello materno.
Fanno impressione, quando restano dritte a sfidare il vento, caldo e sporco, che fa bruciare gli occhi e l’anima. Fanno impressione quando si rincorrono e si guardano, con quegli straccetti addosso, una scarpa sì e una no, le mani nere di chissà cosa, pronte ad afferrare un ananas o un mango per una merenda sbucata all’improvviso su uno scarico controllato male. Fanno impressione anche a mia figlia, sbarcata in questo orrore e cosciente, all’improvviso, di tutte le nostre fortune. Compresa quella che ci consente di poter aiutare gli altri. Ho portato qui Eleonora quando aveva 12 anni, l’età delle bambine della discarica: non credo dimenticherà mai quel giorno.