Dopo le abbuffate di Natale è il momento di mettersi a dieta. Questo reportage, perfetto per il periodo, è il capitolo iniziale de <La mia Asia>, tutto dedicato al cibo e alle mille stravaganze che si possono incontrare sulle tavole d’Oriente e non solo. Alcune ardite, altre entusiasmnati anche per i palati meno avventurosi. Buona lettura. E buon appetito.
La scelta sul menù non è mai facile in Oriente. Per questioni di lingua, ma non solo. Anche quando la spiegazione è in inglese, mica è facile capire il senso gastronomico di un <morning glory> che sta ad indicare, in realtà, un ottimo insieme di verdure preparate con una gustosa salsa. E allora a volte, per facilitare il povero turista, sui menù compaiono piccole foto che valgono come presentazione: più o meno si capisce quel che arriverà in tavola. Un po’ come fanno in Africa, quando portano la carta con le foto di elefanti, bufali, coccodrilli, fagoceri, per spiegare che sarà la carne di quell’animale ad essere servita, in genere annegata in un sugaccio piccante.
In Asia l’avventura gastronomica è straordinaria. Certo, serve un po’ di disponibilità. E forse può essere utile, per prepararsi spiritualmente, la lettura di <Buono da mangiare> ottimo libro dell’antropologo americano Marvin Harris.
Uno dei principi che sostiene è che come non si può generalizzare la bellezza o la simpatia per categorie di persone affermando che <tutti i biondi sono belli> o <tutti i rossi sono antipatici>, così non si può stabilire in modo pregiudiziale, o almeno non si dovrebbe, che alcune cose non si possono mangiare o sono cattive. Questo è un lusso che possiamo permetterci noi, figli di una società opulenta, con i frigoriferi pieni e una enorme possibilità di scelta. Altrove questo non accade, e in Asia vale i detto cinese: <Tutto quel che si muove si mangia>. Insetti compresi. Che non sempre fanno schifo. Le cavallette fritte della Birmania non sono più disgustose di un gambero fritto male, o più di una volta, in uno scadente ristorante di pesce. L’unico sapore che si sente è, appunto, quello di fritto: ma mentre la consistenza del gambero resta comunque morbida, la cavalletta scrocchia. Il segreto, in queste situazioni, è provocare l’effetto alluvione, ossia richiamare molta saliva in bocca e annegare il boccone per mandarlo giù senza masticare. Tecnica difensiva da applicare in casi di estrema necessità, quando proprio non si può rifiutare qualcosa che si fa fatica a ingurgitare.
Personalmente, non mi sottraggo mai agli esperimenti. Anzi, me li vado proprio a cercare. In Cambogia, mentre aspettavo il traghetto per attraversare un fiume, molte persone in attesa passavano il tempo smangiucchiando qualcosa che tenevano dentro un cartoccio. Mi guardai intorno e vidi bancarelle cariche di deliziosi stuzzichini: chiesi, e mi spiegarono che erano scarafaggi fritti. Irresistibili. Comprai anch’io un cartoccio e cominciai ad assaggiarli. Non facevano un grande effetto, perché le zampette, quelle che quando li incontriamo ancora in vita si agitano velocissime e li rendono imprendibili, erano ben visibili e non incoraggiavano all’assaggio. Rimasi dubbioso qualche istante prima di afferrarne uno e provare. Nel frattempo ero involontariamente diventato un’attrazione, l’unico occidentale in mezzo a un centinaio di cambogiani, uno stravagante occidentale, devono aver pensato, anche un po’ scemotto, per aver deciso di far merenda con gli insetti. Comunque, a un certo punto, respiro profondo e boccone. Se qualcuno si aspettava sputazzi e lamentele, rimase deluso.
Perché lo faccio? Mi diverte, semplicemente. Mi diverte assaggiare quel che è strano, quello che non appartiene alle nostre certezze gastronomiche e magari ripugna, quello di cui si nutrono popolazioni che non hanno altro, mi incuriosisce provare un sapore nuovo, sapere che effetto fa, capire se resisto. Ho cenato insieme a un ex cannibale lungo il fiume Karawari, in Papua Nuova Guinea, con un menù a base di larve di sago, ho mangiato vermi fritti e arrosto, pipistrelli, cobra, coccodrilli, struzzi, topi, nidi di rondine, canguri. A casa nostra adoro rane e lumache, la pajata e la coda alla vaccinara, ma non mi piace il cervello fritto. Ho un sogno proibito che fece inorridire e scendere il silenzio nel teatro Parioli quando lo confessai a un Costanzo Show: vorrei assaggiare la carne umana, un pezzetto, mica tanta, giusto per capire come è. Anche perché nelle chiacchiere da dopo cena con Francis, l’ex cannibale del Karawari, lui mi confessò la sua passione: disse che la carne umana ricorda il gusto del maiale, anche se è un po’ più insipida, che quella dei bianchi è migliore di quella un po’ stoppacciosa dei giapponesi (sbranati durante la II guerra mondiale), e che i lombi, soprattutto dei neri, sono un vero bocconcino: <delicious> fu la traduzione che mi venne fatta.
Non so se Francis abbia mai assaggiato un bacarozzo, vivo, morto, crudo o cotto o fritto. Non ha perso niente. Regala un amarognolo in bocca, sia che lo si butti giù con l’alluvione di saliva sia che lo si mastichi un po’. Ecco, in questo caso ricorda proprio quel che accade quando si riesce a schiacciarlo mentre scappa: sflac, più o meno, è il rumore, sflac, più o meno, è il gusto che invade la bocca. Mai più.
Ho mangiato il cane, ma senza per questo sentirmi colpevole verso il mio adorato Lou, uno straordinario, quasi umano Cavalier King Charles, orecchie pelose che spazzavano in terra, occhioni capaci di commuovere quando te li sparava addosso. Mi guardò, per l’ultima volta, una sera di novembre. Stava male, soffriva di cuore, uno dei problemi della razza, e si trascinava in strada per quella paseggiata domenicale: non ce ne sarebbero state altre, ma nessuno lo sapeva. Era debilitato dalle medicine, stanco, appesantito, lo stomaco gonfio. Metteva una zampa davanti all’altra con una disperata lentezza, diretto alla fontanella, per concedersi una bevuta di acqua fresca. Rimase un tempo interminabile sotto quella gioia liquida.
Non gli dissi nulla, non lo tirai via, non feci neppure un cenno per provare a fargli fretta. Sapevo che era una delle ultime soddisfazioni della sua breve vita – aveva appena 10 anni – ma non immaginavo sarebbe stata l’ultima. Non volevo pensarlo. Si staccò dalla fontanella soddisfatto, ma quasi incapace di camminare. La pancia era diventata enorme, le zampe si piegavano. Fece tre passi e si sedette. Mi guardò e lo accarezzai a lungo. Poi ripartì, qualche altro passo e si sedette nuovamente. Mi accucciai accanto a lui, per fargli altre coccole. Si rialzò ancora, ma si bloccò stremato all’angolo della strada che portava verso casa. Mi parlò con gli occhi e mi disse che non ce la faceva proprio più, ma che voleva tornare a casa. Lo presi in braccio, con le lacrime che mi allagavano gli occhi e la gola intasata di singhiozzi. Con Lou stretto addosso aprii il portone, presi l’ascensore, entrai in casa. Era mezzanotte e nessuno era andato a letto, perché quella passeggiata era diventata troppo lunga. Carla, Eleonora e anche Edith, la tata che da tanto tempo è con noi ed è parte della famiglia, arrivarono all’ingresso dove mi ero fermato. Lou mi guardò ancora, e fu l’ultima volta. Abbandonò testa, si lasciò andare, contento di essere tornato a casa, e non si mosse più. Lo adagiammo a terra, sulla sua copertina beige, e scoppiammo a piangere.
C’è una tradizione che può sembrare crudele, fra molti popoli che hanno praticato il cannibalismo rituale, ed è invece un gesto di infinita dolcezza. Mangiare una pezzo, anche piccolo, di una persona morta significa custodirne il ricordo per sempre, tenerlo con sé, trattenerne e tramandarne le virtù migliori. Un modo per dire ti ho voluto bene. Lo stesso vale per un animale, dipende da quel che si sente nel cuore. Ho pensato di mangiare un pezzetto di Lou, per tenerlo con me per sempre, ma non l’ho mai confessato a nessuno perché nessuno, forse, avrebbe capito. Di quei cani vietnamiti assaggiati a Hanoi, invece, non sapevo nulla e, in fondo, non me ne importava niente, esattamente come accade quando mangiamo una bistecca, un filetto, un arrosto o un’insalata di pollo. L’animale sparisce, in quel momento è soltanto cibo. E quei cani non erano neppure troppo buoni.
Si mangiano in ristoranti specializzati lungo una squallida strada di Hanoi, nella periferia nord, baracchette annunciate da grandi cartelli sui quali è scritta a caratteri giganteschi una sola parola di tre lettere: <Cho>. Vuol dire cane.
In Vietnam questo genere di cena non è soltanto una semplice tradizione gastronomica, è anche investimento sul futuro, perché se mangiate nell’ultima sera del mese lunare, ossia con il giusto allineamento astrologico, quelle pietanze hanno anche effetti positivi sulla vita che verrà. Sull’immediato, invece, di positivo c’è ben poco. Il cane è fatto arrosto o stufato, a pezzi molto piccoli. L’arrosto si avvolge in foglie di verdura, menta compresa, per dare contrasto ai sapori, e poi si intinge in una salsetta. Da dimenticare, stoppaccioso e insipido. Con lo stufato va un po’ meglio, carne più tenera, ammorbidita dal sughetto e dalle spezie. Per digerire, suggeriscono la vodka Hanoi, una specie di benzina brucia tutto, che distrugge qualunque cosa incontri.
Ma in Vietnam, e non solo, un altro incontro spettacolare sulla tavola è il serpente. Cobra, in genere. Come accadde a Saigon. Più che il gusto, in quel caso, fu il rituale a colpire sia me che Carla, mia moglie, schizzata in piedi su una sedia dalla parte opposta del ristorante non appena dalla cucina uscì un giovanotto con camicia a scacchi stile texana e un sacco di iuta.
<Lì dentro c’è il serpente> disse Carla.
<Figurati> risposi.
Aveva ragione.
Cominciò uno show straordinario nell’assoluta indifferenza di una famigliola vietnamita, bambini compresi, che continuò a cenare tranquillamente mentre a due passi da loro il giovane viet-cowboy armeggiava con un cobra vivo. Gli afferrò la coda e la strinse nei denti per avere le mani libere e giocare col serpente. Intanto dalla cucina un cameriere aveva portato un vassoio sul quale erano poggiate un paio di forbici e un boccale per la birra riempito per metà con un liquido scuro.
<Whisky> mi dissero, senza spiegare a cosa sarebbe servito.
Le carezze al serpente si trasformarono presto in una presa d’acciaio proprio alla fine della testa: la bocca si spalancò e il cobra, per scaricare il veleno, fu costretto a mordere una membrana di plastica che chiudeve un bicchiere. Fu l’inizio della sua fine. La mano sinistra del cowboy con gli occhi a mandorla scivolò un pò più giù per far posto alle lame delle forbici, impugnate con la destra. Un colpo e la testa del cobra volò via, rotolò sul vassoio mentre il corpo venne messo in verticale sul boccale per far scolare il sangue e mescolarlo al whisky. Bevanda dagli effetti magici, dicono, ottima per il sistema cardiocircolatorio, i polmoni e anche il vigore sessuale. Ma non lo sappiamo, non assaggiammo per esplicito divieto di Carla.
Con grande perizia venne estratto il cuore, bocconicno prelibato da offrire a chi avrebbe pagato il conto. Lo portarono a me, ma fu Carla, sempre in piedi dall’altra parte della sala, a urlare <Nooooo, il cuore non mangiarlo>.
Lasciai stare e assaggiai il serpente bollito. Insulso, quando mi domandano di cosa sappia, rispondo <di coccodrillo>, praticamente di pollo.
Ben più orribile fu lo <snake set menù> assaggiato a Can Tho, sul delta del Mekong, davanti a una colossale statua in argento di Ho Chi Minh. Tre portate, ma il bocconcino prelibato, si fa per dire, arriva sotto forma di spring roll, un unico, grande involtino primavera farcito di carne di serpente. <Di fikume> tennero a precisare. E avrei dovuto capire che la fregtura era proprio lì.
Aspetto anonimo, ma odore preoccupante. Quando assaggio, un nauseabondo gusto dolciastro invade bocca e naso, un insieme di muffa e fogna, un cocktail nauseante che avrebbe ammazzato la buona volontà anche di un fachiro.
<Ti piace?> chiese la cameriera.
<Proprio no – risposi – grazie, puoi portarlo via>.
La cena finì con un sandwich prosciutto e formaggio. E birra gelata. Una meraviglia.