Il campanello accompagna quei passi lenti, carezze di stracci sull’asfalto arroventato. E il dolore si rinnova, come fosse una messa recitata in strada, come una comunione indù in cui il dio dei cristiani offre il suo corpo in un nuovo sacrifico: loro che credono a Shiva e Visnù hanno le membra devastate dalla lebbra e avanzano come testimoni della pietà per le strade infernali di Calcutta. A piccoli gruppi o anche da soli, affidano al suono sordo di quel campanello la voce del loro tormento. E trascinano le gambe, strusciano i piedi, muovono con fatica quel che resta delle braccia e delle mani, nascondono, se possono e se credono, i volti offesi dalla malattia. Ma tra loro c’è pure chi sa sorridere e tendere la mano: con garbo e cortesia. <Non ci aspettiamo da tutti lo stesso coraggio: sappiamo che molti non vogliono neppure sfiorarci, qualcuno ha perfino paura di guardarci>. Dove finisce il braccio, che spesso non arriva alle dita, c’è il guanto della sofferenza, una benda lacera e sporca che resiste settimane e mesi, finchè la carne mangiata dal male non torna a far spavento e allora, solo allora, è il momento di rinnovare la medicazione.
UNA CAREZZA PER L’ANIMA Una carezza è il regalo che desiderano più di qualunque altra cosa, e un sorriso è già una carezza per l’anima. Perchè Calcutta è feroce, è l’inferno che insegna la pietà, è il baratro umano della tragedia, è il mercato delle sofferenze davanti al Kalighat, il tempio che celebra Kali e la sua crudeltà, dea della morte e della vita, e che ogni giorno vede polli sgozzati e sangue sparso, perchè il sacrificio di qualche animale serva a migliorare la vita di qualche uomo. Rajiv ricorda madre Teresa, è stato di casa nella sua casa, è entrato malato e uscito guarito, più di una volta. Ha perso la salute e la famiglia, poi ha perso anche la testa ma la sua cantilena nasconde un briciolo di pietosa follia: <Sono nato sulle montagne, sono nato in fondo al mare, sono nato ovunque arrivi il mio pensiero>.
UN MONITO E UN’ACCUSA Il suo corpo è un brandello di carne che pesa quanto un bambino ben nutrito dell’occidente, è un monito e un’accusa. Il mondo ricorda di Calcutta le armonie e i nudi di un musical di successo. Qui ci sono soltanto dissonanze, accordi sbagliati che cancellano emozioni e sentimenti e travolgono ogni dignità. Calcutta non è la frontiera di un domani migliore per chi lascia le campagne dell’Orissa e le alluvioni del Bangladesh, è il tormento di chi ci è nato, è la porta che cancella ogni speranza, come un vero girone dantesco, a chi dal ponte sull’Hoogly lancia uno sguardo di pietà sul proprio destino. Come Swami, che fa il barbiere sulla riva del fiume e ha soltanto uno scoglio da offrire ai suoi clienti, un sasso dove al tramonto si lavano i panni e la notte si dorme. Swami sciacqua il rasoio nelle acque che finiranno nel gonfo del Bengala e con quella stessa lama, nei giorni fortunati, taglia un pezzo di pane, il chapati che divide con la famiglia. Dormono poco lontano, sotto un telo di plastica che difendono con la furia della disperazione: lui, tre figli, la moglie, la suocera, hanno per casa una tenda costruita con un bastone di legno trasformato in pilone centrale sul quale stendono, nell’illusione di trasformarli in tetto, sacchi della spazzatura svuotati, lavati e cuciti insieme.
CHI NON HA VISTO CALCUTTA, NON HA VISTO IL MONDO <Se non avete visto Calcutta – scriveva Giorgio Manganelli -voi non avete visto, non già l’India, ma il mondo. E’ una città impossibile, inesistente, una allegoria, un labirinto, un incubo, una rivelazione. Questa città, e forse essa sola, è già pronta per il giudizio universale: forse, ignari, a Calcutta siamo già dietro le quinte, nel guardaroba della fine del mondo>. Eccola Calcutta, la città di Tagore, l’unico Nobel per la letteratura che l’India abbia avuto. Eccola Calcutta, la culla di Madre Teresa. Eccola Calcutta, quindici milioni di persone che affollano le due sponde di una città divisa da un fiume e unita soltanto da un ponte, l’orribile Howrah, sul quale ogni giorno trottano come dannati migliaia di uomini che per sopravvivere fanno i cavalli.
CORRI UOMO, CORRI Ashok è uno di loro. Corre da dieci anni trainando quel carretto sul quale carica due o tre persone per volta, anche quattro se sono bambini, e le porta da una parte all’altra della città, per una manciata di rupie che non restano neppure tutte a lui: al proprietario del risciò deve versare un affitto che a volte supera metà dell’incasso. Corre a piedi nudi, per strade che sono strisce d’asfalto bucherellato, pozzanghere e sterrato, che induriscono piedi e talloni fino a farli diventare veri zoccoli, piatti e sformati, e trasformano un uomo in una bestia sofferente che sbuffa e scuote la testa, proprio come farebbe un cavallo. <Tossisco spesso e ogni volta il dolore mi squarcia il petto> si lamenta Ashok e mostra il suo piccolo sudario da tasca, un fazzoletto che era di cotone bianco e ora è quasi marrone, per lo smog e il sangue. Ashok ha la tubercolosi e l’aria di Calcutta è perfetta per non farla passare mai, tra sforzi e inquinamento, monsoni e umidità. <Il medico dice che dovrei stare a letto. Ma non ho tempo per riposare>. E non ha neppure il letto. A guardarlo in viso si riconosce la giovinezza, tra le rughe e le guance incavate, negli occhi infossati, nei capelli gonfi di polvere. Ma Calcutta gli ha già rubato gli anni, come un mostro maligno che lo costringe a non interrompere mai la sua funebre danza di strada.
A CACCIA DI PANE E RUPIE Ci sono milioni di Ashok a Calcutta, una folla sterminata a caccia di pane e rupie, disposta a tutto per sopravvivere. E così piazze e vie sono ingorghi di auto e operai, fabbriche e mercati, e uomini e donne e bambini vendono, aggiustano, portano, tessono. E pregano, in quel miracolo di speranza e serenità che diventa un istante rubato agli affanni e dedicato a dio. A qualunque dio. A quello severo che chiede il sacrificio, a quello che obbliga alla penitenza, all’altro che promette soddisfazione soltanto dopo indescrivibili sofferenze, come lasciarsi trapassare la carne da ganci da macelleria e poi farsi appendere a piloni di legno issati come monumento alla follia medievale che esiste ancora in questa parte di mondo. O, ancora, rivolgendo pensieri e azioni a quegli dei delicati e raffinati dell’universo jainista che insegnano ai loro discepoli a non divorare alcuna creatura umana e per questo li costringono a indossare una mascherina sulla bocca, perchè nemmeno un insetto possa finire, neppure per caso, tra la lingua e il palato. Ma Calcutta è la capitale della fame, e perfino i simpatici jainisti appaiono snob e sprezzanti: perchè negli slum e nelle bidonville anche gli insetti, a volte, possono diventare un pasto.
FERISCE IL CUORE COME UN RIMORSO Calcutta. Resta nel cuore come un rimorso, come un dolore antico, al quale si sa di non poter più rimediare. Ogni volta che si arriva, un’ansia sottile imprigiona l’animo e sembra di costringere a contare i giorni e poi i minuti che separano dalla partenza: ma quando questa si avvicina, già non si ha più voglia di andar via, come se all’improvviso si pensasse di poter essere utili, di poter diventare parte della redenzione di questo mondo sfortunato. Calcutta. Sono gli odori dolciastri e nauseabondi, le fogne che non esistono e diventano rivoli che corrono accanto ai marciapiedi, sono tubi che esplodono e regalano docce stradali a chi non ha acqua in casa e si laverebbe nelle pozzanghere di pioggia. Niente funziona. Calcutta è la vita appesa a un filo del piccolo che chiamano Ganesh, come il dio con la testa di elefante, un soprannome che sa di benedizione, perchè il bambino, avrà sei anni, rischia la vita decine di volte al giorno, per far guadagnare qualche soldo alla famiglia. Il padre lo lega a una corda e lo afferra, stando in piedi su un trespolo di legno, a quattro metri da terra: poi lo fa roteare come una palla e Ganesh si agita con l’abilità di un trapezista consumato ed esibisce nel vuoto figure e geometrie, finchè il padre lo lancia più in alto che può, per guadagnare più tempo possibile, scende con un salto mortale dalla pedana, e si affanna per riprenderlo al volo e abbracciarlo e metterlo in salvo, fino alla prossima esibizione. E’ la vita quotidiana dei saltimbanchi, che si inventano un mestiere e conquistano una moltitudine di folla e una manciata di rupie.
<IL PEGGIORE POSTO DELL’UNIVERSO> Ma ci sono posti, anche a Calcutta, dove il denaro si guadagna e si spende. Nei luoghi che celebrano ancora la memoria inglese, dove si gioca a cricket e si fanno correre i cavalli, e le banconote passano di mano in mano, per scommesse con puntate stupefacenti, sufficienti per mantenere intere famiglie per più di un anno. Ma Calcutta non esibisce le sue ricchezze: nessuno ostenta gioielli o abiti sfarzosi. Per un naturale rispetto verso l’umanità sofferente che c’è intorno, verso gli accampati in strada, i mendicanti e i lebbrosi, i bambini nati sani e deformati o mutilati dai crudeli registi dell’industria dei questuanti. A Calcutta passa inosservato un bimbo messo in un angolo con la mano tesa: ma se a quello stesso bambino manca una gamba o attaccato alla spalla ha un moncherino, o se un piede o un braccio sono storti, la commozione è garantita e l’elemosina più probabile e generosa. Jagdish ha lavorato in questa compagnia di spietati sfruttatori: <Poi mi sono pentito. Ho visto rovinare molti neonati, li ho visti crescere senza che nessuno raccontasse mai loro quello che era veramente accaduto. Finchè qualcuno ha capito e ha provato a vendicarsi. Anche con me>. Adesso mendica in proprio, nel corridoio di pietra che porta al tempio di Kali, la protettrice della città, dea fiammeggiante nel suo terrifico splendore, con i serpenti velenosi e la ghirlanda di teschi che le cingono il collo. Shiva, sposo di Kali e dio della fertilità, è adorato di fronte alla moglie, con i suoi lingam, pietre alte più di un metro, che il popolo ama ornare con collane di fiori e onorare con generose colate di burro lasciato sciogliere al fuoco. Anche al Kalighat, come in tutta la città, bene e male si fondono in un solo, inestricabile groviglio: i Thug, setta di briganti che uccidevano e rapinavano nel nome di Kali, sono nati qui e come arma usavano le sciarpe santificate dal sangue sacrificale versato nel tempio della loro dea protettrice. Fu Robert Clive, governatore britannico, a definire Calcutta <il peggiore luogo dell’universo>. Ma raccontano che videro piangere anche lui, mentre si allontanava attraversando il ponte sull’Hoogly, dove scalpitano gli uomini cavallo, dove lavora Swami il barbiere, dove i lebbrosi suonano con delicatezza i campanelli che annunciano il loro arrivo e accompagnano i loro passi lenti, carezze di stracci sull’asfalto arroventato.
I VIAGGI DI CORRADO RUGGERI
Gradiva le differenze: forse per questo viaggiò tanto - Jorge Luis Borges
Il Reportage
Calcutta, la città impossibile,
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