Il terrore e la speranza. Vivono così nella Birmania lontana, nelle campagne e negli altopiani dove l’esercito governativo arriva e spara, uccide donne e bambini, bombarda villaggi, incendia case, nasconde mine. Karen, Shan, Arkanesi e le altre etnie hanno smesso da tempo di sopportare, chi ha coraggio impugna un fucile e combatte, per provare a cacciare questo governo di banditi. Neppure la presenza in parlamento di Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la pace. basta a farli sentire tranquilli. Anzi, ora c’è perfino chi si preoccupa di più, convinto che la Birmania di oggi sia come la Yugoslavia di ieri, un paese tenuto insieme soltanto da un forte potere centrale, ossia la dittatura militare: se dovesse indebolirsi troppo, è il pensiero anche di alcuni osservatori, le diverse etnie si combatterebbero, esattamente come è accaduto in Yugoslavia.
Soffre la Birmania, fra il terrore e la speranza, paralizzata anche da queste antiche divisioni fra popoli che nemmeno le tragedie quotidiane sono riuscite a sanare. Ancora oggi, quando parli con uno Shan ti dice: <Se incontri un arkanese e un serpente, spara prima al serpente>. Frazioni, fazioni, che avvelenano ancor di più una vita già piena di tragedie. Chi non ha l’animo roccioso si rifugia dove la fede funziona come riparo: <Nel monastero ho già un materassino imbottito, un triangolo di stoffa dove poggiare la testa e la schiena. Quando sarò monaco anziano avrò novizi che mi serviranno e nessuno mi disturberà>. Non è fede, ma un modo per sopravvivere.
Poi c’è l’orrore che non uccide, ma consuma come una piaga infetta, piano piano. Ho visto tanti bambini piangere, perché avevano fame, erano malati, perché il destino o qualcuno gli aveva portato via i genitori. Ne ho visti altri impietriti dal dolore, paralizzati dalla paura. Poi ho incontrato Nun. Quando aveva 8 anni. E ho sentito la rabbia scatenata dall’ingiustizia, ho provato il desiderio di usare la violenza. Mi ha fermato chi era con me, bloccandomi le mani prima che le scatenassi contro una bestia in forma di donna, forse mai stata madre, forse mai stata donna.
<Bravi, eh> diceva di quei bambini trattati come schiavi, accucciati davanti a lei per ore ed ore, ridotti a una catena di montaggio umana e infantile per attaccare etichette ai sigari, un pezzetto di carta con stampata una tigre con le ali.
Fra quei ragazzini incontro Nun. Che è come tutti gli altri, costretta a raggiungere obiettivi di produzione altissimi per ottenere il denaro pattuito: dopo 500 etichette attaccate prende un gettone arancione, a mille spetta quello giallo e afine giornata si fanno i conti. Con 10 mila etichette riceve 150 kyat, 15 centesimi di euro, che qui bastano per comprare un chilo e mezzo di arance. Per sistemare un migliaio di sigari ci mette mezz’ora, ma questo all’inizio di giornata, poi il ritmo cala.
Nun e gli altri, sono una quindicina di ragazzini, lavorano dalle 7 di mattina alle 6 del pomeriggio: portano il cibo da casa, in genere pesce salato, e per mangiare si fermano quando vogliono. Ma succhiano, ingurgitano, perché non vogliono perdere tempo, vogliono scappare appena possibile da questo luogo di sofferenza e vogliono attaccare più etichette possibile, perché molti di loro sono gli unici a portare i soldi a casa, per i loro genitori – ed è fortunato chi li ha ancora – spesso non c’è lavoro. Ma un bambino ha diritto al gioco, alla gioia, ai piccoli sogni dell’età. Qui lavorano soltanto.
Quella bestia della <signora che comanda> inventa trucchi e prova a imbrogliarli, per trasformare questa prigione in un cortile dove i bambini si divertono. Ogni mattina distribuisce a tutti un foglietto e all’improvviso ordina: <canzone numero 3>. E i bambini cantano, con la voce strozzata in gola.
Si fatica a starli a guardare senza poter rovesciare tutto, senza poter calpestare sigari ed etichette, senza rompere la faccia a questa aguzzina che sembra una kapo’ nazista felice, sì, perfino felice di torturare le sue vittime. Hanno un vassoio davanti, questi piccoli schiavi, con un contenitore pieno di colla. E’ lì che devono infilare il dito in quel liquido appiccicoso da cospargere sulle etichette prima di avvolgerle intorno ai sigari. E il dito è sempre lo stesso, l’indice, e l’indice di tutti questi ragazzini è già macerato, la pelle del polpastrello viene via a brandelli, le unghie quasi alzate.
Nun è più triste degli altri, lo sguardo abbandonato, il viso quasi immobile mentre le dita si muovono con l’eleganza e la velocità di una concertista sulla tastiera del pianoforte o di una suonatrice d’arpa fra le corde. La sua colonna sonora è fatta di singhiozzi trattenuti, per un dolore che la corrode, che le cancella la serenità di esser bambina, per una rabbia che si libera solo quando esce di lì e confessa il suo tormento: <La signora ha detto che devo tagliarmi i capelli>.
Quei lunghi capelli neri sono il suo tesoro, il suo <esser grande> già da ragazzina, una piccola fortuna che la natura le ha dato e che ora la nazista che dà gli ordini vorrebbe cancellare con un colpo di forbici. <Ha detto che li devo tagliare – singhiozza Nun – perché perdo troppo tempo a toccarli, a riportare il ciuffo indietro ogni volta che mi scende sugli occhi>.
L’ho guardata mentre mi traducevano la sua disperazione. Le ho accarezzato una mano e sfiorato i capelli. Poi sono salito di corsa per le scale, per tornare dalla nazista. Mi hanno fermato prima che le arrivassi davanti.