Il cielo è stellato di teschi nel territorio dello sciamano Unding. La tradizione di esser stati feroci è coltivata come una virtù antica e quelle teste tagliate sono esibite come un vanto spettrale a protezione di uomini e cose. Il Sarawak è ancora regno dei cacciatori di teste, ufficialmente disarmati dalla legge, ma felici, appena possibile, di mozzare qualche collo e far rotolare i crani fino al fiume, come palle con cui giocare. L’ultima guerra tribale ha fatto contare qualche centinaio di morti: è intervenuto l’esercito, ma solo quando era già stata celebrata la pace. Così Unding è fiero dei suoi trofei nella long house dove governa anime e corpi come un signore feudale, unica autorità in questa grande palafitta dove vivono tutti insieme, centocinquanta persone e una ventina di cani. C’è una stuoia stesa sulle travi di legno a far da pavimento, un tappeto intrecciato a mano dalle donne della tribù, soffice quasi come un materasso, ricamato con buchi e macchie che sono avanzi di cibo e ricordi di cane. E ci sono una trentina di porte che si affacciano sulla veranda che è la grande area comune, una specie di salotto-sala da pranzo, dove tutti si ritrovano per chiacchierare e mangiare, un condominio orizzontale dove da ore brindiamo con il vino di riso. <Adesso che stai per chiudere gli occhi – mi dice Unding – questo vino serve ad aprirti il cuore. Dormi con noi?>.
Fuori c’è la foresta del Sarawak malese, una giungla che nasconde ancora l’alba dell’uomo, una grande muraglia verde di fusti, foglie e radici popolata da uomini piccoli e feroci, gli ultimi tagliatori di teste, tribù crudeli con il culto dell’onore che tra palme e kenzie giganti affilano le lance e lucidano le cerbottane.
<Grazie, sciamano Unding, dormo con voi>.
<Bene. Riposerai con la testa poggiata a questo palo. Ti proteggeranno questi teschi che stanno sopra di te: sono gli ultimi nemici che abbiamo ucciso. Buona notte>.
Ciondolano come un bel trofeo di caccia, con qualche ciuffo di capelli ancora visibile, accanto al buco da dove Unding ha estratto il cervello, per affumicarlo e mangiarlo, come prescrive la tradizione. Banchetti sempre più rari, almeno ufficialmente, ma le teste tagliate restano al loro posto, per sprigionare tutti i poteri magici che hanno: devono difendere la casa e chi la abita dalle malattie, dalla morte e dalle disgrazie. <E quando non bastano loro – mi spiega Unding – intervengo io con le mie pietre>.
Unding è lo sciamano più famoso di tutto il Borneo, una specie di Croce Rossa degli ex collezionisti di teschi. Davanti a me ha curato un bambino di cinque o sei anni, portato in braccio dal padre che per due giorni ha camminato nella giungla. Unding ha indossato il cappello con le penne, si è unto con un olio magico e a torso nudo, con la pelle brillante di tatuaggi, ha guardato il piccolo, lo ha accarezzato, gli ha poggiato le mani sulla fronte. Poi ha detto: <Hai l’anima debole ma ho la pietra giusta per curarti, quella blu a forma di uovo che lo spirito della giungla fece trovare a mio padre nel nido del bucero>.
Ha alzato il piccolo verso il cielo e verso i teschi: <Questo bambino volerà alto, io lo guarirò>.
La febbre è sparita e sulle guance del piccolo le lacrime hanno lasciato il posto al sorriso. Quando ha visto che il figlio stava migliorando, il padre è tornato al suo villaggio, ha convocato la tribù e con un nutrito seguito ha riattraversato la giungla per rendere omaggio allo sciamano. Due giorni di festa grande, di cibo e vino di riso, di racconti e sorrisi, doni e affettuose carezze ai teschi. E una notte di avventura, per quei giovani coraggiosi che seguendo la tradizione osano sfidare i divieti e si improvvisano acrobati per scoprire con l’ingegno l’incanto della conquista.
La donna è una preda che si cattura nella sua tana, ed è la notte il momento migliore per la caccia. <Guardalo – mi dice Unding – quel giovane avrà mia figlia. E’ furbo e agile come un gatto, intelligente come un aquila. Guardalo, adesso entra in casa mia>.
La grande long house ha porte senza serrature, ma non è da lì che passa il giovanotto. Si arrampica sulla trave centrale e si cala nelle stanze del capo, passando per il piccolo magazzino dove si conservano i cibi. La sua bella è lì sotto, già sveglia, perché sapeva che avrebbe ricevuto visite. <Non è la prima volta che succede – spiega Unding – e lei ha sempre rifiutato di seguirlo, perché così vuole la tradizione. Ma quel giovane le piace, questa volta lo seguirà>.
Escono dalla porta e Unding si para minaccioso davanti a loro, come se volesse davvero punire la figlia ribelle e il giovane che ha violato la sua casa. <C’era un tempo – dice lo sciamano – in cui le nostre donne potevano innamorarsi soltanto di chi dimostrava abbastanza coraggio da abbandonare per qualche tempo la tribù e poi tornare con un oggetto di valore che non era mai stato suo. Oggi chiamano furto questo gesto, e noi abbiamo smesso di compierlo, ma non per questo abbiamo smarrito le nostre tradizioni che ci impongono il coraggio>.
Cambia qualche dettaglio, ma la recita adolescenziale dell’amore impone ancora al padre di opporsi a quello che vorrebbe sembrare un rapimento, ma per la figlia di Unding sono già pronte le pietre che garantiranno la benedizione degli spiriti, gli abiti e il vino di riso, la dote e gli animali per i festeggiamenti. <Continuiamo a misurare il coraggio dei nostri ragazzi, non ci piace la viltà>.
Unding è severo e ricorda i tempi in cui si diventava uomini veri soltanto dopo aver superato prove terribili. <Ci sono caverne – racconta – non molto lontano da qui, dove si andava incontro agli spiriti , si arrivava bambini e si tornava uomini>.
Parla di Mulu, lo sciamano Unding, un territorio che oggi è parco naturale ed è vero santuario della natura dove si celebra la libertà di serpenti e pipistrelli nelle stesse caverne che servirono da rifugio al primo uomo che si affacciava in Asia, quarantamila anni fa. Qui c’è la grotta più grande del mondo, la cavità Sarawak, dove entrerebbero senza difficoltà 16 campi di calcio o 40 jumbo jet. Ma è la Deer Cave il meraviglioso orrore di questo parco, l’antro selvaggio dove l’uomo si riscopre primitivo, dove sente intorno a sé gli odori della preistoria, quando non c’erano mascherine antibatteriche e salviettine profumate per difendersi dall’assalto dei vapori.
Eccola, la Deer Cave, appena più piccola di uno spazio immenso, 150 metri di altezza, talmente grande da convincere scienziati e ricercatori che da qualche parte deve esistere una trave invisibile che tenga solida la volta, perchè senza sostegni, così come appare, rischierebbe di crollare da un momento all’altro. E invece resiste dall’origine del tempo, da quando i tre milioni di pipistrelli che ancora l’affollano l’hanno scelta come loro rifugio. Anno dopo anno, secolo dopo secolo, i loro escrementi si sono stratificati sul fondo della grotta, a formare un pavimento ripugnante che ogni giorno si rinnova di cinque tonnellate di guano, pochi grammi per ogni pipistrello. E l’odore è nauseabondo, e viene voglia di uscire o di smettere di respirare, ma si va avanti in una folle prova di coraggio che prende alla gola e soffoca, e ogni passo avanti è un tuffo nel passato, nella luce che scompare mentre nel buio brillano gli occhi dei serpenti che attorcigliati in un angolo, lontani dalle pozze d’acqua e dai gocciolii, affrontano la muta della pelle. L’inferno non deve essere molto diverso. Ma è bellissimo stare qui, dove gli sciamani vengono ancora a cercare le pietre e gli uomini riescono a parlare con gli spiriti. E quando la sera sta per arrivare, appena prima del tramonto, il silenzio della caverna si anima con un batter d’ali che diventa frastuono assordante, un terrore sonoro che esplode quando i tre milioni di pipistrelli escono per la parata trionfale di fine giornata, quando vanno a caccia di insetti per il banchetto e come un tornado di piccoli demoni invadono il cielo di Mulu. La grotta li vomita come un infinito serpente nero che gioca con i riflessi del tramonto e si attorciglia su se stesso e si divide in comitive di milioni di ali che si rincorrono e si ritrovano in un luna park aereo che è ricamo verso l’infinito, balletto tra le nuvole, corteo d’ali che sembra una cometa nera in picchiata e poi in risalita. Finchè il banchetto finisce, e la grotta inghiotte di nuovo il suo tesoro animato e nel rito della sera i pipistrelli volteggiano tra stalattiti e stalagmiti, accarezzano i serpenti con un lieve batter d’ali e consegnano un altro giorno alla storia millenaria della giungla e delle sue grotte. Rimaste come erano, come le aveva colte l’alba dell’uomo. Selvagge, come l’animo dolce e crudele dello sciamano Unding.