<Quando giri una ruota di preghiera, reciti i testi che sono scritti lì dentro, tutti. Ed ogni volta che fai muovere una ruota è come se facessi la preghiera più completa del mondo e la urlassi per tutto il pianeta>. Non si fermano mai le ruote dello Dzong di Punakha, piccolo luogo magico dove l’altitudine è perfino accettabile, 1300 metri, l’aria pura e la pace infinita. Ce ne sono due all’inizio del ponte levatoio, residuato bellico di quando su queste valli si combatteva contro gli invasori che arrivavano dal Tibet. Tempi lontani, ma già da allora questo è lo Dzong più prezioso e amato, quello dove il re viene incoronato e dove le api si trovano benissimo. Costruiscono giganteschi alveari che nessuno si azzarda a disturbare, sotto il cornicione del primo tetto, dietro la grande jacaranda, dove chissà perchè si posa lo sguardo appena superato il ponte levatoio, nel piazzale davanti alla scalinata d’ingresso dello Dzong. E’ la prima meraviglia, questo insieme di alveari che pulsano come un gigantesco cuore, si contraggono e si riespandono, agitati da un movimento di ali che non si fermano mai e in questo modo rinfrescano i favi. Naso all’insù, lo spettacolo è abituale e nessuno pensa a una minaccia, a un attacco improvviso di un gigantesco sciame di api, saranno migliaia, capaci di stendere un esercito. Qui la natura è amica, sarà la santità del luogo, sarà che è proprio un mondo diverso dal nostro, ma nessuno vive quello spettacolo di energia come un pericolo. E’, per tutti, un semplice tesoro della natura.
Come questo splendido Dzong, che è invece opera dell’uomo, il più bello e il più sacro del paese: il lilla degli alberi di jacaranda, il bianco candido delle alte pareti, le decorazioni in oro, rosso, nero, le scale ripide, il ponte levatoio, le reliquie dei Lama. E anche i gatti, che sciamano fra un cortile e l’altro e saltano in braccio ai monaci, a caccia di coccole e di qualche bocconcino. Ma in questa domenica non ci sono tuniche viola o rosse o amaranto a far loro compagnia, questa domenica gli uomini che amministrano la fede sono nella grande sala a pregare tutti insieme. Si sente un vociare lontano e confuso, si riconoscono all’improvviso trombe e tamburi che indicano la strada per attraversare corridoi angusti e bui che rimandano col pensiero all’abbazia de <Il Nome della Rosa>, a luoghi che custodiscono, o forse nascondono, qualche cupezza antica, un tormento dell’animo che accompagna ogni religione. Anche questa. Qui ci sono più di 200 monaci, un ondeggiante popolo di tuniche rosse che recita mantra, canta, medita, compone armonie di mani e vibranti arabeschi con campanelli che fanno crescere il ritmo della preghiera, i toni diventano più intensi, le spalle si coprono a un ordine che nessuno dà ma che tutti conoscono, prima che la voce salga, diventi quasi un grido corale coperto poi dai colpi di tamburo, dall’urlo delle trombe e dall’esplosione metallica dei piatti affidati all’autorità del Lama. Dopo, sarà di nuovo silenzio. Mentre fra i banchi, dove gli anziani siedono nelle prime file e i novizi nelle ultime, non si interrompe mai un rigido controllo di ordine e serietà, affidato a monaci guardiani che impugnano i segni del comando, frusta compresa.
Disciplina severa, in particolare per i più giovani che devono imparare a governare loro stessi, prima dei fedeli. Ma gli istanti di libertà arrivano anche per loro: finita la cerimonia si va al fiume, che corre sotto lo Dzong. Via le tuniche, si lavano i panni e se l’acqua non è troppo fredda, si fa anche il bagno. Roba da ragazzi, un istante di serenità. Perché la vita in monastero non è facile, soprattutto per chi è adolescente. Studio, preghiera, pochi svaghi. Qualche colpo di frusta, se non si riga dritti. Qualche angheria, forse anche segreti inconfessabili che non vengono mai rivelati, tantomeno denunciati, ma ai quali si pensa guardando volti, scrutando occhi, interpretando un’espressione, un’occhiata, un gesto, un sorriso, un ghigno. Forse si sbaglia, ma il dubbio viene. E non scompare. La vita da monaco, oltre che per chi viene arruolato nell’onorevole esercito dei religiosi, è una garanzia per la famiglia di origine, che spedisce bambini di dieci anni in monastero, anche se i piccoli non hanno mai avuto <vocazioni> o <chiamate>. Vestire la tunica significa rinunciare a ogni desiderio terreno: la vita diventerà lettura e scrittura, i novizi non dovranno far altro che pregare e imparare a memoria i mantra, all’inizio senza neppure capire quel che stanno studiando. Gli anziani li esaminano, qualche volta chiedono ai giovani ore di studio supplementare, capita pure che suggeriscano, e pratichino, privatissime ripetizioni personalizzate. Ma un monaco in famiglia resta una benedizione per tutti.
Fuori dal monastero la vita è meno facile. Anche nella fertile valle di Punakha, dove la natura generosa regala due raccolti di riso all’anno e fa crescere arance succose e banane saporite. Una cittadina che fu capitale e oggi prospera grazie a un turismo che apprezza un’altitudine confortevole, siamo a 1300 metri, e sconfigge l’antica credenza che in Bhutan vuole condannati all’infelicità i luoghi dove si congiungono due fiumi. Qui si incontrano il Mo Chhu e il Po Chhu, fiume Madre e fiume Padre, serpentine azzurre fra le risaie. Non si smette di guardarli scorrere in mezzo a questo piccolo paradiso, mentre si resta prigionieri felici nelle stanze o sulla terrazza dell’Uma Punakha, uno di quei luoghi che scaldano l’anima. Pochissime camere, appena 12, un cuoco che viene da Bali e di quell’isola porta fin qui la dolcezza e il gusto di sperimentare, anche in cucina: diventa squisito perfino lo yak usato per fare il sugo e condire tagliolini fatti a mano e larghi come fettuccine.
Poi c’è Kenche, orgogliosa del suo titolo di housekeeper, governante o cameriera, ma detto in inglese la fa sentire più importante. Bussa alla porta: <Devo rifare la sua stanza, sir>. E lo dice con un sorriso straordinario, di quelli che risplendono sulle riviste patinate per reclamizzare un prodotto e riescono bene dopo decine, centinaia di foto. A lei viene spontaneo. Aperto, luminoso, rassicurante. Non è bella, ma quel sorriso è straordinario. Ha 21 anni e sulla schiena – intelligente trovata di marketing – porta il cesto usata dai contadini: invece del fieno, dentro c’è tutto quel che le serve per il suo lavoro. Fa molto atmosfera, quasi commuove al posto del solito carrello carico di asciugamani, saponi e bottigliette di bagnoschiuma.
Kenche è un’inconsapevole sherpa della gioia di stare al mondo, una testimonial riuscita di come il Bhutan sia davvero quel che dice lei: <felicità, pace, armonia>. Ha un figlio, sta con un uomo che chiama <marito> anche se non si sono mai sposati, semplicemente vivono insieme come usa da queste parti, nella grande casa della famiglia allargata, con i genitori, i 5 fratelli, i nonni, gli zii: <Ho studiato fino al ten grade – racconta – ma non ho finito il liceo. C’era l’opportunità di lavorare e ho cominciato a fare la cameriera. Guadagno 4 mila più le mance, diciamo che arrivo a 200 dollari al mese>. Non è poco per loro, uno stipendio più che discreto. Però il sogno segreto è riuscire ad andare a vivere in Australia. Ma come, il Bhutan, felicità, pace, armonia? Sorride. Dice di adorare Brad Pitt, che ha visitato il Bhutan, e Angelina Jolie, che buona parte del tempo libero lo passa a guardare i film inglesi con i dvd, sospira quando ricorda che i genitori sono contadini e fanno tanta fatica a zappare la terra e raccogliere non molto. Dice però che il loro peperoncino è straordinario. E sorride, sorride, sorride.
E’ l’arma segreta di queste donne, il sorriso smagliante che <si apre dal cuore>. In una società fondata su valori semplici, sembra contare più l’autenticità di un gesto o di un sentimento che l’artificio di una strategia di comportamenti. Tecniche di seduzione non hanno successo fra queste montagne dove i rapporti personali sono schietti. Ma il fascino, quando c’è, è un’altra cosa.
Istituto di artigianato di Thimphu, la capitale, college in stile americano, dove vivono e studiano 200 giovani, maschi e femmine. Costruiscono il futuro con 9 ore di lezione al giorno, dormono in camerate spartane, letti a castello, bagni in comune, riscaldamento in funzione ogni tanto, il gong che annuncia i pasti, consumati in una sala comune, seduti per terra e con stoviglie di plastica. Rigore, austerità, metodo. Con qualche trasgressione. Tsherina è la più carina della scuola, viene dal sud, ha occhi da pantera inferocita, fessure luminose in mezzo al viso capaci di graffiare l’anima, i capelli neri raccolti in una maliziosa treccia, la blusa blu da studentessa con i risvolti rossi alle maniche, dita affusolate, il nasino che affoga fra gli zigomi e si arriccia ad ogni sorriso. Da due anni fa quel che non dovrebbe: è fidanzata con un compagno di corso. <Non potremmo, ma lo sanno tutti. E tollerano>. Vuole diventare interior designer. Intanto scolpisce nel legno i simboli della sua fede e spera di trovare una tigre volante, come quella di Guru Rinpoche, che la porti verso il successo.
Il Bhutan è terra di leggende, di credenze antiche alle quali ci si aggrappa anche per avere più fiducia nel domani. Tra Thimphu e Punakha c’è un passo, il Dochu La, a 3140 metri di altezza, che oggi è uno sventolio infinito di bandierine di preghiera, un arcobaleno che sa di gioia e serenità, con l’Himalaya sullo sfondo. Un tempo era pericoloso. Per lunghi anni, si racconta, qui imperversò una diavolessa cannibale che divorava i poveri viandanti. Finchè sulla sua strada trovò Lama Drupka Kunley, il Folle Divino, che la invitò a cena, ingolosendola con una mandria di yak, di cui la diavolessa era molto ghiotta. Il Lama la incenerì, con il suo <magico fulmine della saggezza>. A ricordo della liberazione del passo c’è un piccolo tempio nella valla fra il Dochu La e Punakha, costruito in onore del Folle Divino e dedicato alle donne che non riescono ad avere figli. La diavolessa rimase impressionata dal gigantesco fallo del Folle Divino e dal fulmine che saettò da lì, proprio da lì. In memoria di questo le benedizioni nel tempio vengono impartite con un fallo di legno rosso. Effetto garantito, dicono i monaci. Le donne tornano fertili e gli uomini riescono a fecondarle. Un viagra della fede. E’ il Bhutan, un altro mondo.