Bangkok

Il cielo allegro e affollato
della Città degli Angeli

bang373611-svetikBangkok è la calamita per ogni sogno smarrito, è il posto giusto per festeggiare un successo, il rifugio di vinti e sconfitti, il luogo dove cominciare a guardare più in alto. E’ una città che non condanna mai nessuno, che sa accogliere e anche stordire, una metropoli medicinale, capace di guarire malinconie, regalare speranza, cancellare nostalgie.

Bangkok è ruvida, imprigionata da un’urbanistica distratta, offesa da giganteschi piloni di cemento che sostengono la monorotaia, orribilmente ornata da collane di penzolanti cavi elettrici, e poi si allaga, ci sono traffico, rumore, inquinamento. Orrida ma bellissima. Capace di stupire. Semplicemente presentandosi per quello che è. Unica. Ma abilissima nei cambiamenti. E’ rimasta per decenni distesa lungo il suo fiume, pigra e molle come un’anziana signora impegnata soltanto a custodire segreti e distribuire ricordi. Poi, improvvisa, la rinascita. Come se si fosse rialzata in piedi, ha cercato ispirazione verso l’alto e la notte, la vivacità, il glamour, hanno trovato un nuovo spazio: fra le nuvole. Via dalla riva del Chao Praia, dal rumore delle long tail e delle chiatte cariche di sabbia, via dalle zanzare e da qualche odore di troppo. Lassù, oltre il sessantesimo piano, si sfiora il cielo della Città degli Angeli.

Molti dei grattacieli vent’anni fa non c’erano. E su quelli che già esistevano non si saliva in cima, i tetti non erano popolati, non c’erano i bar che oggi sono ritrovi frequentatissimi dove una cena costa come un mese di stipendio di un impiegato e un drink come una settimana di lavoro di un tassista.

Bangkok-rooftop-bars-and-restaurants-that-you-can’t-miss-632x350Il tramonto con vista è al Vertigo, in cima al Banyan Tree. Dress code severo per gli uomini, mai in bermuda o sandali, altrimenti si è costretti a indossare una specie di ridicolo pareo color beige. E’ molto frequentato, ci si viene per far colpo. A cominciare dall’ascensore: 59 piani in 43 secondi, sale come un proiettile, più veloce che nell’Empire State Building di New York. Si bevono Vertigo Sunset o Moon Lover, cocktail dai nomi stravaganti, c’è perfino il Let’s go to the beach, che da quell’altezza sembra un invito rischioso e comunque più prudente del Sex on the beach, a base di vodka. La cena per due ha prezzi scanditi con cifre dettate dal profitto e dalla scaramanzia: 7.777 bath, senza vini, oppure 9.999, con vini, con sei ostriche e fagioli cannellini. Si sta in alto, ma la vista, per la verità, è modesta: altri grattacieli, le luci della città, il fiume è lontano, si vede appena un accenno di curva. Il vero sguardo dal cielo è altrove, in cima a un’attrazione diventata di gran moda a Bangkok, lo Sky Bar della State Tower, la stessa dove c’è il Lebua, in Silom road. E’ un classico della notte irrequieta e del brivido caldo o del gelo bollente, quell’ondata che scuote il corpo e lo fa vibrare, col sangue che si gela e la carezza afosa del vento tropicale. Confonde ed emoziona, fa tremare le gambe, ridere o singhiozzare. Non c’è nel menù, ma qui l’adrenalina viaggia veloce, scatena Gran Premi nelle arterie appena si lancia lo sguardo oltre questo trampolino sul nulla, nel precipizio di duecento metri di vuoto sotto un bancone circolare dove la folla si affaccia e arretra, si sporge e si ritrae e quando prende coraggio posa per una foto che per quanto ardita non restituirà mai la splendida avventura di guardare Bangkok da quassù. Con un mojito in mano, il più buono del Sudest asiatico. Poi i guerrieri della notte, quelli che inseguono le vibrazioni dell’animo, <warm vibes>, quelli che cercano una vita <less ordinary>, meno prevedibile e più avventurosa, da Silom road sciamano fino al vicino Sathorn Square Complex, una piazza virtuale dove si impenna un altro grattacielo, di giorno triste alveare di uffici, di notte destinazione felice dove chi arriva cammina sul red carpet dell’accoglienza, premurosi valet si prendono cura delle auto, le fanno scomparire in un parking sotterraneo, mentre i nottambuli vengono presi in consegna da hostess alte non meno di un metro e ottanta, fasciate da lunghi abiti neri con spacchi infiniti o minigonne vertiginose. All’ultimo piano c’è il Ku De Ta, filiazione di un fortunato locale di Bali e Singapore: ristorante panasiatico, bar, lounge club, niente strip o signorine a disposizione, ma cocktail e tempura, sushi e carta dei vini intercontinentale. E soprattutto strepitosa atmosfera, creata da un architetto filippino con ricami di interni in acciaio, cristalli e cemento: ha scolpito gli ambienti con le luci, li ha riempiti di chiaroscuri, inventato salottini che si rincorrono un piano sopra l’altro, a voler simboleggiare i diversi livelli della lounge e della vita, perché è solo dall’alto che si controlla il destino di chi sta sotto.

-Bangkok-ThailandBangkok corre. Sceglie senza imbarazzi i piaceri della vita, li propone e ne rinnova l’offerta, anche costosa, anche in controtendenza. Il lusso è cercato e, a volte, ricercato, ma mai sfarzoso: l’esuberanza esibita è bandita, semmai si sceglie un understatement in stile anglosassone, fatto di sobria apparenza e di considerevole sostanza. <Value for money>, la bibbia di chiunque paghi un servizio, ottenere valore dal denaro che si spende, viene qui rispettata totalmente. E non solo per gli stranieri.

Nel ribollente mondo delle novità turistiche, Bangkok è sempre una delle frontiere più avanzate. Anche negli alberghi. Il classico, quel che noi definiamo barocchetto, arredi tradizionali, tende damascate, letti larghi ed alti, hall luminose e ampie, tutto quel che sa di comodo, tranquillizzante e tradizionale, qui si può – volendo – collocare nell’album dei ricordi. Come gli hotel design prima versione: camere essenziali, bagni a vista, vetri trasparenti per vedere e lasciarsi maliziosamente osservare. Il viaggiatore futurista e amante delle emozioni forti può scegliere una hall in stile jungla, pezzi di tronco trasformati in lampade da terra, travi incrociate per comporre gigantesche sedie dove i <normali> esitano perfino a sedersi, perché potrebbe spuntare all’improvviso un King Kong qualunque a reclamare quella poltrona come sua. E’ l’estremismo contemporaneo, non gradito a tutti. Però gli arditi da viaggio, quelli che indossano canottiera e calzoncini, qui si sentono a loro agio, sono felici e lo dimostrano, chiacchierando e chiamandosi a gran voce, urlando, senza provare alcun imbarazzo. Questione di gusti. Ma un viaggio serve anche a liberare la propria personalità, quella autentica. E ognuno si manifesta per quel che è.

bgOcave-640x426Non sono mai stato un cavaliere dell’etichetta, e non lo divento certo correndo avanti negli anni. Oggi, come alla fine del XX secolo, difendo la libertà di tutti, ricordando a me stesso, innanzitutto, che quella di ognuno finisce dove comincia quella degli altri. Il problema, semmai, è dove sistemare la linea di confine.

 

 

Tratto da <Farfalle sul Mekong>, nuova edizione 2015, Feltrinelli

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