L’australiana di Bali sa come domare l’oceano. Ma queste onde, le hanno spiegato, sono acqua e anima e bisogna fare attenzione. Non ai serpenti che pure stanno lì, dentro le grotte, a ridosso della riva: sono appena rientrati nelle loro tane, adesso che è l’alba, e sulla sabbia ancora umida si vedono i segni del loro passaggio. Wendy non li sopporta: non le fanno paura, la terrorizzano. Ma non è a loro che pensa. Adesso è l’ora di preparare l’offerta da dedicare agli dei prima di affrontare l’Oceano: un ibiscus rosso per Brahma, un frangipane bianco per Shiva e un pezzetto di stoffa nera dedicato a Visnù. Wendy è nata nella laica Australia, ma ogni volta che viene a Bali riscopre una religiosità che aveva dimenticato: <Senza l’aiuto degli dei, mi sarei schiantata contro le rocce decine di volte>.
La sfida si ripete ogni mattina, poco prima delle sei, l’ora in cui la corrente è più impetuosa. Come una pacifica guerriera dell’Oceano, Wendy aspetta l’arrivo dell’onda più alta, quella segnalata dal tabulato computerizzato che ha imparato a memoria, da brava surfista. Guarda il sacro tempio di Ulu Watu che domina l’Oceano arroccato su una roccia, ad alcune centinaia di metri: sa che non deve avvicinarsi troppo, perchè altrimenti gli spiriti maligni si scateneranno contro di lei. E sa che deve riuscire a dominare la violenza dell’onda ed evitare assolutamente di cadere perchè l’acqua è bassa e la roccia tagliente. E’ in agguato, Wendy. E’ pronta. Vede l’acqua che si gonfia e sale anche lei, salta sul surf, cavalca l’onda che cresce ancora, si rompe, fa schiuma e lei resiste sopra la tavola, le braccia larghe per tenere l’equilibrio mentre avanza veloce come un meteorite e l’Oceano la spinge, a pochi secondi dallo schianto.
Il sole dell’alba illumina Wendy e Ulu Watu, dove si venera Dewi Danu, la dea protettrice del mare: è lei che salva l’australiana. Riesce a virare a meno di cinque metri dal primo scoglio, prua a destra, verso il sole, verso un altro giorno del mattino del mondo.
Questa è l’isola che fa innamorare chi ha un’anima ricca. Perchè è l’isola dell’armonia, della gioia di vivere e di morire, del mistero hindu che considera i nostri giorni sulla terra una serie di passaggi in corpi diversi. <Io sono mio nonno: anzi, lui è diventato me>. E’ la parola di Made, giovanotto della quarta casta, la più bassa, popolani e contadini, che come tutti credono nella reincarnazione ma più degli altri sperano in un futuro migliore. <Non è un’invenzione – aggiunge Made – è stato il sacerdote a riconoscere in me lo spirito di mio nonno. Lo ha detto a mia madre prima che seppellisse la placenta, la sorella che mi ha accompagnato fino alla nascita>. Si torna sulla terra dopo averla lasciata, ma una corretta vita religiosa può consentire di interrompere il ciclo delle rinascite, queste andate e ritorno tra cielo e terra, e aprire per sempre le porte dell’universo degli dei. Per questo pregano, sacrificano, celebrano, offrono, con una convinzione che può anche apparire esagerata, ma è la ragione principale della loro vita.
Dio è tutto e ovunque, in un cocktail anche un po’ disinvolto di religione e magia, con qualche goccia di superstizione. Gli spiriti sono dappertutto, secondo i balinesi. Spiriti benigni e maligni, che vanno ugualmente pregati, sia per non farli arrabbiare, sia perchè l’equilibrio del mondo, nella fede hindu di Bali, si regge proprio sul confronto degli opposti. Quando un incendio distrusse il Grand Bali Beach, uno dei primi alberghi dell’isola, l’unico ad essere costruito in verticale, dieci piani di cemento, non ci fu nessun morto, ma tutto venne ridotto in cenere. Tranne una stanza, la 327, al terzo piano, dove le fiamme annerirono appena un po’ l’armadio e le tende. <Se la stanza non è bruciata – sentenziarono i sacerdoti – è perchè gli spiriti sono intervenuti: anzi, erano proprio presenti al momento dell’incendio>. Oggi la 327 è un luogo sacro, e si può visitare, con le stesse accortezze che si usano per i templi, a cominciare dall’obbligo di togliersi le scarpe. Due volte al giorno agli spiriti vengono portati frutta fresca e caffè bollente, e chi va a visitare la camera offre abiti, scarpe e perfino occhiali per i bisogni della vita nell’aldila. Però c’è pure chi rifiuta la 328, cioè la stanza accanto: perchè non tutti apprezzano l’idea di avere una coppia di spiriti dall’altra parte della parete.
Buoni o cattivi, dei e spiriti accompagnano ogni attimo di Bali. A Ulun Danu Batur, dove c’è un bel lago e un bel panorama, il misticismo del tempio è inquinato da un signore che offre pitoni per foto ricordo, da pagare in dollari o euro: con la sua polaroid costano il doppio, chi gli fa usare la propria macchina fotografica spende solo 5 euro. Per convincere che non c’è alcun pericolo, espone l’immagine di un ragazzino in fasce avvolto dai serpenti. E’ la Bali da dimenticare, quella venduta a un turismo da comitive. A Jaddi Lui, mille metri di altezza, risplende il Pura Batukau, un gioiello che si offre a chi fatica per andare a scoprirlo. La strada è brutta, piena di buche, vietata ai grandi pullman, che non hanno spazio per passare. Ma dopo le risaie, dopo i villaggi popolati da gente che veste ancora in modo tradizionale, con i kris, i pugnali rituali, a portata di mano, dopo decine e decine di curve, il tempio è il meritato premio. Qualunque fede si abbia, qualunque Dio si voglia pregare, questo è il posto giusto. Non c’è sfarzo artistico, ma è la natura che disegna il suo affresco nella cattedrale senza cupole di Batukau. C’è la giungla dietro l’altare maggiore, con i suoi profumi, le foglie larghe del banano, i ciuffi rigogliosi delle palme, le canne di bambù che il vento scuote e trasforma in canne d’organo, consegnandole a una sorprendente armonia mentre la foresta offre la sua colonna sonora di canti di uccelli. Perfino i gesti semplici di una preghiera solitaria acquistano solennità. Un ragazzo è inginocchiato, con la testa china su un fumante cespuglio di incenso: porta le mani giunte alla fronte, per invocare il Dio supremo, le sposta all’altezza del naso, per rivolgersi agli antenati, sul cuore, per gli amici e i parenti. E quando ha finito di pregare, come in un tripudio di gioia o di estasi mistica, lancia verso il cielo una manciata di rossi petali di ibiscus: sarà pure suggestione o illusione ottica, ma li vedo ricadere lievi e lenti, troppo lenti.
<C’è Dio, qui> dice Anom, uno dei guardiani del tempio. A lui è affidata anche la cassetta con le offerte in denaro: <Non la ritiro nemmeno di notte: nessuno si azzarderebbe mai a rubarla>. Eppure dentro c’è una somma che è un anno di lavoro di un contadino. <Forse i turisti possono avere qualche tentazione: ma con loro stiamo più attenti>. Sono proprio i turisti i veri spiriti maligni di Bali, isola con tre milioni di abitanti e un milione di visitatori ogni anno, un esercito armato di videocamere e macchine fotografiche, che senza pietà e senza chiedere permesso scatta e filma funerali, cerimonie di cremazione, processioni, scruta e ferisce ogni intimità. Sembra davvero che gli abitanti di quest’isola abbiano perso il diritto alla privacy, sia pure con la loro stessa complicità, risarcita o comperata con euro e dollari.
Perchè appena si arriva all’aeroporto, solerti impiegati di agenzie turistiche consegnano chili di depliant in cui si annunciano cerimonie di cremazione pubbliche, processioni pubbliche, celebrazioni pubbliche, alle quali il turista può assistere, naturalmente pagando. E’ qualcosa in più di un caldo senso di ospitalità, è il business della rappresentazione turistica, un accordo commerciale tra chi crede di assistere a un pittoresco squarcio di vita hindu e chi si lascia radiografare negli aspetti più segreti della propria vita. Ma una cremazione costa molto denaro, e la sovvenzione è gradita: così il meccanismo si è attivato e ora prolifica. Ma l’aspetto straordinario di questo scambio commerciale è che Bali non ha affatto perso la sua autenticità: lasciano che i curiosi stranieri si confondano nella folla tra i templi e le processioni, incuranti degli altri, indifferenti alle intromissioni. Come se una particolare energia interiore li rendesse insensibili a ogni contaminazione morale. Oppure, al contrario, impermeabili a ogni disturbo, purchè ricompensato. Una losca capacità occidentale, importata con entusiasmo. I nostri danni, ovunque nel mondo.